giovedì 26 ottobre 2017

LA RELATIVITA' DEL SUPERLATIVO OVVERO ODE ALLA BIONDA


Alla fine non mi rivolge più la parola.
Lei.
A dire il vero, non so nemmeno il motivo.
Fatto sta che se mi incontra, cambia strada.
Lei.
Cose da non credere!
Lei.
Quella che si auto definiva “migliorissima amica”.
Diffidare dei superlativi assoluti!
Ma di che meravigliarsi? Mi risulta sia una tipologia diffusa: chi non ci ha fatto i conti almeno una volta in vita sua?
E poi si sa, rapportarsi con una potenziale amica è un po' come trovarsi davanti una Louis Vuitton: c'è un'alta probabilità sia tarocca.
Ma non generalizziamo: limitiamoci a osservare questa categoria.
Le esponenti della specie “migliorissima amica” (se a questo punto vi sembra di sentire in sottofondo l'Aria sulla Quarta Corda e Claudio Capone – voce storica dei documentari naturalistici – parlarvi della stagione dell'accoppiamento del tricheco fulvo, tranquilli: va tutto bene! Rientra nel taglio da divulgatore scientifico, un po' alla Quark, che vorrei dare all'analisi che segue, giusto per non sembrare troppo coinvolta nell'invettiva) sono quelle che, matita rossa e blu alla mano, passano alla moviola ogni tuo singolo respiro e poi se la prendono se al quinto «Ma perché non fai così?» o «Ma perché non fai cosà?», rispondi «Ma perché non ti fai i cazzi tuoi?» (e sotto sotto ti senti anche in colpa che ti sia scappata la frizione perché, dai, si sa: siamo un po' tutti fenomeni con la vita degli altri).
Sono quelle che si offendono se non vai alla trigesima del prozio ma non alzano il telefono per sapere l'esito dell'istologico.
Sono quelle che guardano con occhi invidiosi i tuoi progetti, vedendo in te quello che non hanno avuto il coraggio di diventare loro.
Quelle che ti ammorbano con i problemi digestivi del loro gatto, noncuranti del fatto che a te al solo sentire «Miao» venga la psoriasi, ma sono colte da disturbi afasici ad articolare un «Come stai?» quando ti sanno a letto con 39 di febbre.
Quelle che quanto a cucina e figli dispensano consigli che nemmeno Cannavacciuolo e tata Lucia, facendoti sentire un'inetta, nonostante loro ai fornelli sappiano fare a mala pena una frittata e di pargoli non ne abbiano nemmeno uno (ma questo tu, che sei una signora, ti guardi bene dal farglielo notare).
Quelle tutte «Io ci sarò sempre» e «Io non ti tradirò mai», senza calcolare che i manifesti programmatici così pretenziosi di solito partono in tromba ma poi finiscono in vacca.
Quelle che si chiudono una immaginaria cerniera sulle labbra e «Ti giuro che questa cosa non uscirà di qui» ma dopo qualche giorno scopri che la zip si deve essere rotta perché la metà delle persone che conosci sa proprio quello che non avrebbe mai dovuto sapere (d'altronde lo si legge anche nei Promessi Sposi che “una delle più grandi consolazioni di questa vita è l'amicizia”, peccato però che il Manzoni – che ci vedeva lungo – lo dicesse con ironia come la considerazione di due righe più sotto dimostra: “Quando un amico si procura la consolazione di deporre un segreto nel seno d'un altro, dà a costui la voglia di procurarsi la stessa consolazione anche lui”).
Le “migliorissime amiche” sono quelle che ti stanno accanto con commovente abnegazione quando la vita è un soggiorno all inclusive in un Club Med alle Maldive ma che quando annaspi immerso in un mare marrone (che non è cioccolato) ti piantano senza troppe remore come una carota nell'orto, quelle che davanti sono tutte sorrisi e complimenti ma appena ti giri usano la tua schiena come un bersaglio colorato contro cui lanciare senza ritegno le loro appuntite freccette.
Ah, le “migliorissime amiche”. Dovrebbe esserci un girone infernale di tate Lucie che brandiscono pargoli urlanti tra vomito di gatto mentre Cannavacciuolo prepara frittate marroni (no: dentro non c'è cioccolato!), per le “migliorissime amiche”.
Perché nelle vite degli altri si deve entrare in punta di piedi, chiedendo “Permesso” e “Per favore”, magari portando un fiore, di certo non il tuo cassonetto dell'immondizia.
Senza sventolare superlativi assoluti come se fossero vessilli di dedizione.
Al massimo con la predisposizione d'animo di voler condividere con l'altro i punti esperienza che fino a quel momento hai accumulato nel tuo percorso.
E sarebbe già tanta roba.
Così quando, stanca di questi rapporti asimmetrici, giungi alla conclusione che in fatto di amicizie la sfortuna non ti ha baciata in fronte, no no no, ti ha proprio limonato duro per ore, ecco che arriva lei, capelli biondi legati in una coda stropicciata, sguardo disincantato e il passo svelto che sembra una dichiarazione di guerra al mondo.

 
Ok, non ci sono le margherite (in compenso però le cacche sì) ma dove andavo a fotografare un campo con entrambi gli elementi alle sei e mezza di sera?


Lei non usa “mai”, non usa “per sempre”.
Non è da proclami altisonanti né una che ragiona alla Branduardi ne “Alla fiera dell'Est”.
Ma è una che va dritta al punto, senza troppi ricami.
Una che parla dei tuoi sogni usando il plurale.
Una che ti espone le sue osservazioni senza appesantirle coi giudizi.
Una che se le emozioni fossero una torta al cioccolato, non userebbe forchetta e coltello ma se la mangerebbe con le mani, contenta di sporcarsi pure la faccia.
Una che ti sa far vedere un cielo azzurro anche quando diluvia.
E allora non ti importa più delle Louis Vuitton taroccate (anzi, per dirla tutta: che siano benedette anche quelle se ti sono servite ad allenarti gli occhi!).
Smetti di recriminare e ti concedi un'altra possibilità.
Con lei te la senti di affrontare questa passeggiata in aperta campagna tra cacche di mucca e margherite, che è la vita, perché accanto sai di avere una che fa concentrare la tua attenzione sulle seconde mentre lei indirizza la sua a non farti pestare le prime.

mercoledì 8 febbraio 2017

MERAVIGLIOSO


Sono passati due anni dall'ultimo post.
Ricordo il mattino in cui l'ho scritto.
In quel periodo in cima alle mie preoccupazioni, a monopolizzare giornate ed energie c'erano pensieri tipo:
l'iscrizione del primogenito all'asilo
correggere le bozze del prossimo libro in uscita
le rate della macchina
i vaccini della secondogenita
la sconfitta della Roma contro la Juve a Torino
sollecitare il pagamento di un committente letargico
cambiare il divano
sfanculare l'amministratore per aver aumentato le spese condominiali
«Cheppalle inizia Sanremo... per un mese non si sentirà parlare d'altro»
Poi, un pomeriggio di febbraio vai in ospedale per una visita «Massì, giusto un controllo, signora: facciamo veloce».
Il controllo si trasforma in «Meglio fare una TAC, che stiamo tutti più tranquilli» e le posizioni dei tuoi pensieri si stravolgono improvvisamente con la stessa velocità con cui in stazione un tempo giravano le tessere del tabellone degli arrivi e partenze quando c'era un aggiornamento.



TAC
un viaggio di 300 km
visita specialistica
prelievi
risonanza magnetica
un altro viaggio di 300 km
«Torni qui la prossima settimana con la valigia»
un'operazione complicata
una complicanza postoperatoria
flebo, drenaggi, «Non possiamo ancora dimetterla», l'attesa dell'istologico, settimane lontano da casa...
Perché i cambiamenti quando arrivano, i grandi bivi della vita che quando te li trovi davanti niente sarà più come prima, non sono mai annunciati da squilli di tromba o da segnali luminosi.
E così capita che un pomeriggio di febbraio entri in ospedale per un controllo pensando a cosa cucinerai per cena e di sera ti metti a tavola constatando che la vita che conoscevi non esiste più.
In quei giorni mi sono tornate alla memoria due immagini... vuoi l'effetto collaterale di certi antidolorifici, vuoi che per non impazzire durante la degenza, non potendo né leggere, né scrivere, né guardare la televisione cerchi di fare andare la testa. E la testa, per tenerti compagnia, si mette a ravanare qua e là nel tuo passato riportandoti in superficie episodi che avevi completamente rimosso.
«Oh Betta, non fare tanto cinema: non tutto il male viene per nuocere! Vedrai che tra un po' di tempo ci riderai su» mi suggeriva la nonna Wanda quando mi vedeva affranta dalle prime delusioni esistenziali.
«Oh nonna, porcatroia, “ci riderò su” sto cavolo!» pensavo tutte le volte, quando ancora le tragedie del mio piccolo mondo erano riassumibili nel ragazzo di Roma, conosciuto in vacanza, che non mi considerava, nei miei che mi vietavano di rincasare oltre la mezzanotte o nel prof. di greco che mi aveva dato SOLO sei al sette per la versione (giusto per rassicurare la mia prole: negli anni ho modificato la mia personalissima interpretazione dei giudizi alfanumerici scolastici e oggi no, non considero più bassi quei voti al di sotto del distinto e/o del sette!).
Dopo la nonna, è stata la volta di un fotogramma legato a suor Tecla. Prima di darmi il permesso di vivere in appartamento da sola a Milano, i miei mi hanno parcheggiata un anno in collegio. Uno dei pochissimi aspetti positivi dell'altrimenti infausta esperienza è stato proprio l'incontro con quella vecchietta che quando mi vedeva girovagare per i corridoi con aria troppo pensosa mi ricordava amorevolmente le parole di Matteo: «Ad ogni giorno basta la sua pena!»
Erano due donne concrete, la Wanda e la Tecla, non amavano fare lunghi discorsi e non ci voleva loro molto per intuire che tipo di interlocutore avessero davanti. Per questo quando aprivano bocca non era mai per dire qualche banalità.
Peccato che quella loro saggezza spiccia ai tempi mi fosse entrata da un orecchio e uscita dall'altro. Ma certi insegnamenti fanno dei giri immensi, come gli amori che canta Venditti in “Amici mai”, e poi ritornano.
La propensione a prendere i casi della vita con una eccessiva dose di parossismo l'ho avuta sin da ragazzina. E accanto a questo anche la fissa, sempre consumata come ero da mille progetti, di proiettarmi avanti, troppo avanti: stilare liste, individuare mete e tragitti professionali meglio di un Tom Tom, spuntare liste, preventivare imprevisti, pianificare nei dettagli un domani manco fosse formato di mattoncini Lego, noncurante dei segnali ben precisi che il Cosmo mi inviava e cioè che la vita se ne fotte dei tuoi programmi, anzi, ama assai incasinarteli.
Così nella valigia del ritorno non ho volutamente trovato spazio per quella attitudine al planning forzoso né per quella pantagruelica fame di emozioni che mi portava a vivere tutto negli eccessi.
In compenso però a casa ho portato l'impegno ad accettare con serenità quello che non posso cambiare e a modificare quello che invece posso, la promessa di occuparmi delle rogne quotidiane senza PRE-occuparmene e a vivere il presente senza permettere a ipertrofiche seghe mentali di sporcare i miei entusiasmi.
La tragedia – quella vera, non il ragazzo di Roma (per quanto - va detto - questo travagliato amore giovanile è stata una spina al cuore, ai tempi) o il prof. di greco – quando arriva ti taglia le gambe, ti annebbia la vista, ti fa schizzare il cuore a terra.



Ma se hai la fortuna di avere accanto qualcuno che ti sorregge quando le gambe cedono, ti guida quando la vista è confusa e si china a raccoglierti il cuore schiantato, allora è vero, nonna: non tutto il male viene per nuocere e certe tranvate epocali possono aprirti la strada a cambiamenti salvifici.
E poi lo diceva anche il tuo cantante preferito che nessuna notte è infinita e che, con il giusto margine di tempo, anche il dolore può apparire meraviglioso.