mercoledì 8 febbraio 2017

MERAVIGLIOSO


Sono passati due anni dall'ultimo post.
Ricordo il mattino in cui l'ho scritto.
In quel periodo in cima alle mie preoccupazioni, a monopolizzare giornate ed energie c'erano pensieri tipo:
l'iscrizione del primogenito all'asilo
correggere le bozze del prossimo libro in uscita
le rate della macchina
i vaccini della secondogenita
la sconfitta della Roma contro la Juve a Torino
sollecitare il pagamento di un committente letargico
cambiare il divano
sfanculare l'amministratore per aver aumentato le spese condominiali
«Cheppalle inizia Sanremo... per un mese non si sentirà parlare d'altro»
Poi, un pomeriggio di febbraio vai in ospedale per una visita «Massì, giusto un controllo, signora: facciamo veloce».
Il controllo si trasforma in «Meglio fare una TAC, che stiamo tutti più tranquilli» e le posizioni dei tuoi pensieri si stravolgono improvvisamente con la stessa velocità con cui in stazione un tempo giravano le tessere del tabellone degli arrivi e partenze quando c'era un aggiornamento.



TAC
un viaggio di 300 km
visita specialistica
prelievi
risonanza magnetica
un altro viaggio di 300 km
«Torni qui la prossima settimana con la valigia»
un'operazione complicata
una complicanza postoperatoria
flebo, drenaggi, «Non possiamo ancora dimetterla», l'attesa dell'istologico, settimane lontano da casa...
Perché i cambiamenti quando arrivano, i grandi bivi della vita che quando te li trovi davanti niente sarà più come prima, non sono mai annunciati da squilli di tromba o da segnali luminosi.
E così capita che un pomeriggio di febbraio entri in ospedale per un controllo pensando a cosa cucinerai per cena e di sera ti metti a tavola constatando che la vita che conoscevi non esiste più.
In quei giorni mi sono tornate alla memoria due immagini... vuoi l'effetto collaterale di certi antidolorifici, vuoi che per non impazzire durante la degenza, non potendo né leggere, né scrivere, né guardare la televisione cerchi di fare andare la testa. E la testa, per tenerti compagnia, si mette a ravanare qua e là nel tuo passato riportandoti in superficie episodi che avevi completamente rimosso.
«Oh Betta, non fare tanto cinema: non tutto il male viene per nuocere! Vedrai che tra un po' di tempo ci riderai su» mi suggeriva la nonna Wanda quando mi vedeva affranta dalle prime delusioni esistenziali.
«Oh nonna, porcatroia, “ci riderò su” sto cavolo!» pensavo tutte le volte, quando ancora le tragedie del mio piccolo mondo erano riassumibili nel ragazzo di Roma, conosciuto in vacanza, che non mi considerava, nei miei che mi vietavano di rincasare oltre la mezzanotte o nel prof. di greco che mi aveva dato SOLO sei al sette per la versione (giusto per rassicurare la mia prole: negli anni ho modificato la mia personalissima interpretazione dei giudizi alfanumerici scolastici e oggi no, non considero più bassi quei voti al di sotto del distinto e/o del sette!).
Dopo la nonna, è stata la volta di un fotogramma legato a suor Tecla. Prima di darmi il permesso di vivere in appartamento da sola a Milano, i miei mi hanno parcheggiata un anno in collegio. Uno dei pochissimi aspetti positivi dell'altrimenti infausta esperienza è stato proprio l'incontro con quella vecchietta che quando mi vedeva girovagare per i corridoi con aria troppo pensosa mi ricordava amorevolmente le parole di Matteo: «Ad ogni giorno basta la sua pena!»
Erano due donne concrete, la Wanda e la Tecla, non amavano fare lunghi discorsi e non ci voleva loro molto per intuire che tipo di interlocutore avessero davanti. Per questo quando aprivano bocca non era mai per dire qualche banalità.
Peccato che quella loro saggezza spiccia ai tempi mi fosse entrata da un orecchio e uscita dall'altro. Ma certi insegnamenti fanno dei giri immensi, come gli amori che canta Venditti in “Amici mai”, e poi ritornano.
La propensione a prendere i casi della vita con una eccessiva dose di parossismo l'ho avuta sin da ragazzina. E accanto a questo anche la fissa, sempre consumata come ero da mille progetti, di proiettarmi avanti, troppo avanti: stilare liste, individuare mete e tragitti professionali meglio di un Tom Tom, spuntare liste, preventivare imprevisti, pianificare nei dettagli un domani manco fosse formato di mattoncini Lego, noncurante dei segnali ben precisi che il Cosmo mi inviava e cioè che la vita se ne fotte dei tuoi programmi, anzi, ama assai incasinarteli.
Così nella valigia del ritorno non ho volutamente trovato spazio per quella attitudine al planning forzoso né per quella pantagruelica fame di emozioni che mi portava a vivere tutto negli eccessi.
In compenso però a casa ho portato l'impegno ad accettare con serenità quello che non posso cambiare e a modificare quello che invece posso, la promessa di occuparmi delle rogne quotidiane senza PRE-occuparmene e a vivere il presente senza permettere a ipertrofiche seghe mentali di sporcare i miei entusiasmi.
La tragedia – quella vera, non il ragazzo di Roma (per quanto - va detto - questo travagliato amore giovanile è stata una spina al cuore, ai tempi) o il prof. di greco – quando arriva ti taglia le gambe, ti annebbia la vista, ti fa schizzare il cuore a terra.



Ma se hai la fortuna di avere accanto qualcuno che ti sorregge quando le gambe cedono, ti guida quando la vista è confusa e si china a raccoglierti il cuore schiantato, allora è vero, nonna: non tutto il male viene per nuocere e certe tranvate epocali possono aprirti la strada a cambiamenti salvifici.
E poi lo diceva anche il tuo cantante preferito che nessuna notte è infinita e che, con il giusto margine di tempo, anche il dolore può apparire meraviglioso.