Sono
passati due anni dall'ultimo post.
Ricordo
il mattino in cui l'ho scritto.
In
quel periodo in cima alle mie preoccupazioni, a monopolizzare
giornate ed energie c'erano pensieri tipo:
l'iscrizione
del primogenito all'asilo
correggere
le bozze del prossimo libro in uscita
le
rate della macchina
i
vaccini della secondogenita
la
sconfitta della Roma contro la Juve a Torino
sollecitare
il pagamento di un committente letargico
cambiare
il divano
sfanculare
l'amministratore per aver aumentato le spese condominiali
«Cheppalle
inizia Sanremo... per un mese non si sentirà parlare d'altro»
Poi,
un pomeriggio di febbraio vai in ospedale per una visita «Massì,
giusto un controllo, signora: facciamo veloce».
Il
controllo si trasforma in «Meglio fare una TAC, che stiamo tutti più
tranquilli» e le posizioni dei tuoi pensieri si stravolgono
improvvisamente con la stessa velocità con cui in stazione un tempo
giravano le tessere del tabellone degli arrivi e partenze quando
c'era un aggiornamento.
TAC
un
viaggio di 300 km
visita
specialistica
prelievi
risonanza
magnetica
un
altro viaggio di 300 km
«Torni
qui la prossima settimana con la valigia»
un'operazione
complicata
una
complicanza postoperatoria
flebo,
drenaggi, «Non possiamo ancora dimetterla», l'attesa dell'istologico, settimane lontano da
casa...
Perché
i cambiamenti quando arrivano, i grandi bivi della vita che quando te
li trovi davanti niente sarà più come prima, non sono mai
annunciati da squilli di tromba o da segnali luminosi.
E
così capita che un pomeriggio di febbraio entri in ospedale per un
controllo pensando a cosa cucinerai per cena e di sera ti metti a
tavola constatando che la vita che conoscevi non esiste più.
In
quei giorni mi sono tornate alla memoria due immagini... vuoi
l'effetto collaterale di certi antidolorifici, vuoi che per non
impazzire durante la degenza, non potendo né leggere, né scrivere,
né guardare la televisione cerchi di fare andare la testa. E la
testa, per tenerti compagnia, si mette a ravanare qua e là nel tuo
passato riportandoti in superficie episodi che avevi completamente
rimosso.
«Oh
Betta, non fare tanto cinema: non tutto il male viene per nuocere!
Vedrai che tra un po' di tempo ci riderai su» mi suggeriva la nonna
Wanda quando mi vedeva affranta dalle prime delusioni esistenziali.
«Oh
nonna, porcatroia, “ci
riderò su”
sto cavolo!» pensavo tutte le volte, quando ancora le tragedie del
mio piccolo mondo erano riassumibili nel ragazzo di Roma, conosciuto in vacanza, che non mi
considerava, nei miei che mi vietavano di rincasare oltre la
mezzanotte o nel prof. di greco che mi aveva dato SOLO sei al sette
per la versione (giusto per rassicurare la mia prole: negli anni ho
modificato la mia personalissima interpretazione dei giudizi
alfanumerici scolastici e oggi no, non considero più bassi quei voti
al di sotto del distinto e/o del sette!).
Dopo
la nonna, è stata la volta di un fotogramma legato a suor Tecla.
Prima di darmi il permesso di vivere in appartamento da sola a
Milano, i miei mi hanno parcheggiata un anno in collegio. Uno dei
pochissimi aspetti positivi dell'altrimenti infausta esperienza è
stato proprio l'incontro con quella vecchietta che quando mi vedeva
girovagare per i corridoi con aria troppo pensosa mi ricordava
amorevolmente le parole di Matteo: «Ad ogni giorno basta la sua
pena!»
Erano
due donne concrete, la Wanda e la Tecla, non amavano fare lunghi
discorsi e non ci voleva loro molto per intuire che tipo di
interlocutore avessero davanti. Per questo quando aprivano bocca non
era mai per dire qualche banalità.
Peccato
che quella loro saggezza spiccia ai tempi mi fosse entrata da un
orecchio e uscita dall'altro. Ma certi insegnamenti fanno dei giri
immensi, come gli amori che canta Venditti in “Amici mai”, e poi
ritornano.
La
propensione a prendere i casi della vita con una eccessiva dose di
parossismo l'ho avuta sin da ragazzina. E accanto a questo anche la
fissa, sempre consumata come ero da mille progetti, di proiettarmi
avanti, troppo avanti: stilare liste, individuare mete e tragitti
professionali meglio di un Tom Tom, spuntare liste, preventivare
imprevisti, pianificare nei dettagli un domani manco fosse formato di
mattoncini Lego, noncurante dei segnali ben precisi che il Cosmo mi
inviava e cioè che la vita se ne fotte dei tuoi programmi, anzi, ama
assai incasinarteli.
Così
nella valigia del ritorno non ho volutamente trovato spazio per
quella attitudine al planning forzoso né per quella pantagruelica
fame di emozioni che mi portava a vivere tutto negli eccessi.
In
compenso però a casa ho portato l'impegno ad accettare con serenità
quello che non posso cambiare e a modificare quello che invece posso,
la promessa di occuparmi delle rogne quotidiane senza PRE-occuparmene
e a vivere il presente senza permettere a ipertrofiche seghe mentali
di sporcare i miei entusiasmi.
La
tragedia – quella vera, non il ragazzo di Roma (per quanto - va detto - questo travagliato amore giovanile è stata una spina al cuore, ai tempi) o il prof. di greco –
quando arriva ti taglia le gambe, ti annebbia la vista, ti fa
schizzare il cuore a terra.
Ma
se hai la fortuna di avere accanto qualcuno che ti sorregge quando le
gambe cedono, ti guida quando la vista è confusa e si china a
raccoglierti il cuore schiantato, allora è vero, nonna: non tutto il
male viene per nuocere e certe tranvate epocali possono aprirti la
strada a cambiamenti salvifici.
E
poi lo diceva anche il tuo cantante preferito che nessuna notte è
infinita e che, con il giusto margine di tempo, anche il dolore può
apparire meraviglioso.