«Trey? Gioia di
papà... vieni in giardino che giochiamo un po' all'aria aperta»,
propone entusiasta il signor Blair.
«Non ci penso neanche,
daddy!» ribatte deciso il piccoletto, alle prese col suo tablet.
Gelo.
Deve
essere andata più o meno così a casa
McMillan
qualche mese fa. Ma il tenace capofamiglia non si è dato per vinto e
a fronte del rifiuto ha elaborato questa anticonformistica pensata:
mettere al bando gli strumenti tecnologici nati negli ultimi
vent'anni e tornare a vivere per 365 giorni come nel 1986 (anno che,
oltre ad essere quello di nascita di Blair e della moglie Morgan, fu
anche ricco di eventi passati alla storia: a gennaio lo Space Shuttle
esplose durante il decollo, ad aprile la centrale di Chernobyl
diffuse in tutta Europa la sua nube radioattiva, a giugno ai Mondiali
in Messico, nella sfida ai quarti tra Argentina e Inghilterra,
Maradona segnò le sue due reti più celebri, una etichettata come
Mano de Dios e l'altra eletta gol del secolo, mentre
ad
agosto i Queen si esibirono insieme per l’ultima volta).
Un raggiante Blair con il suo poco vistoso stereo rosa confetto |
E
così le mensole si riempiono di nuovo di libri,
in auto il navigatore viene sostituito dalle cartine
cartacee
e il maneggevole lettore mp3 è stato accantonato per far posto
all'ingombrante stereo
con cassette
come ha dichiarato, orgogliosa della decisione presa, la famiglia
canadese al “Toronto Sun”. Ma anche il look
e le mode
tricologiche
hanno fatto un salto nel passato: se lui sfoggia con orgoglio una
capigliatura a metà strada tra Joey Tempest degli Europe e Ivano
Michetti dei Cugini di Campagna nonché jeans ad altezza quasi
ascellare e con risvolto stile “acqua in casa”, la sua dolce metà
indossa maxipull e accessori dai colori elettrici, effetto
evidenziatore ambulante (se poi riesumerà anche le agghiaccianti
spalline imbottite merita un premio per il coraggio).
Da
questa notizia di cronaca, complice la informazioni trovate in rete
sul libro “Correva l'anno della Girella”, scritto con Giampiero
“Canna” Canneddu, nasce la partecipazione di ieri a “Il
riposo del guerriero”,
l'interessante programma condotto da Stefano
Gallarini
su Radio
24,
due ore volate a colpi di flashback e di piacevoli zapping con la
memoria.
Stefano, Giampiero, Elisabetta |
E
da buoni paladini degli anni Ottanta, stavamo al tema della puntata
come le lenticchie con il cotechino nel menù di capodanno.
Sono
entrata in quel decennio che ero una bambina e ne sono uscita
adolescente, ritornavo a casa da scuola sulle note della musichetta
de “Il pranzo è servito”, passavo i miei pomeriggi in compagnia
di un cane rosa di nome Uan, cantavo con Cristina D’Avena,
ballavo sulle note di “Disco bambina” di Heather Parisi, a
cinque anni sapevo già chi fosse Apollo grazie a sua figlia Pollon,
ho imparato a suonare il flauto solo perché avrei voluto unirmi alla
compagnia di Vitali per dare una mano a quel disgraziato di Remì
e nel 1984 avrei fatto carte false per andare a Ibiza,
affascinata dal manifesto di promozione turistica firmato da Sandy
Marton.
Mi
sono chiesta spesso cosa fosse di preciso il “colpo
della pietà di Hokuto”
o un
“razzo missile”
e se i Righeira
fossero davvero fratelli, per risolvere lo snervante cubo
di Rubik
ricorrevo al bieco trucco si staccare alla vigliacca le etichette
colorate, odiavo l'Allegro
chirurgo
e a lungo, ma infruttuosamente, mi sono allenata per elaborare una
valida risposta al servizio “a foglia cadente” di Mimì
Ayuhara, l'acrobatica
Francesca Piccinini del Sol Levante, capace di tirare randellate tali
da deformare i palloni che diventavano delle specie di missili
terra-aria, dopo aver allegramente piroettato dieci minuti in aria in
nome di chissà quale misteriosa legge fisica.
Ho
segretamente sperato di non seguire in amore le stesse orme di quella
sfigata di Candy Candy, Veronica Castro è stata la mia
eroina, ho quasi fuso la cassetta del Boss a forza di
ascoltare Born in the Usa nel walkman, sognavo di farmi
multare da un agente figo come Ponch, di essere confessata da
un prete charmant come padre Ralph e di incontrare pure io in
una lavanderia a gettoni un bel figliuolo come Nick Kamen che,
pronti via, se ne resti con nonchalance in boxer in attesa che i suoi
jeans siano pronti come ha fatto il pupillo di Madonna in quei
celebri 30 secondi di spot (al che, non è per fare a tutti i costi i
maligni, ma viene spontaneo chiedersi se fossero proprio le
potenzialità canore ad aver colpito la signora Ciccone).
Appartengo
a quella generazione che a forza di “celo, celo, manca” riusciva,
a fatica, a completare un album delle figu, che spacciava le
gomme profumate, che sa completare la frase «Luisa arriva
presto, finisce presto e di solito non pulisce il...», che
finite le vacanze si fiondava nei negozi di fotografia a portare i
rullini di pellicola (e doveva aspettare cinque giorni prima di
rivedere i ricordi del mare) e che ogni volta che si imbarca su un
traghetto non riesce a trattenersi dall'intonare “Mare, profumo
di mareee!”.
E
per dirla tutta, vorrei anche io una DeLorean che mi
permettesse di tornare per un po' in quel decennio, con tutti i suoi
aspetti positivi e tutte le sue magagne. Viaggiavamo in macchina
senza air bag, senza cinture né seggiolini speciali, i medicinali
non avevano chiusure a prova di bambino, correvamo il rischio
scoliosi andando a scuola con zaini (privi di rotelle e di spalline
imbottite) stracarichi di libri e quaderni e si girovagava in bici
senza casco ma quanto era educativa una sana sbucciatura al
ginocchio!
Ho
assunto litri di Billy, mi sono scofanata confezioni su confezioni di
merendine del Mulino Bianco solo per fare incetta di sorprese da
barattare, ho masticato (e spesso inavvertitamente ingoiato) le Big
Babol eppure sono ancora viva!
Non
esistevano i cellulari né gli sms, siamo cresciuti senza
Playstation, Nintendo Ds, dolby surround e satellite, avevamo a
nostra disposizione una manciata scarsa di canali tv, un solo
telefono (e per giunta fisso e “a rotella”) e quando abbiamo
messo piede per la prima volta a Gardaland il “Magic Mountain” e
il “Colorado Boat” ci sembravano attrazioni fantascientifiche (e
un po’ ci facevano pure paura) ma per divertirci bastavano un
sacchetto di biglie
di plastica (quelle con dentro le foto dei campioni di ciclismo come
Moser, Saronni, LeMond, Gimondi, Bitossi), un
foglio di carta e una matita per indovinare la parola segreta a
“l’impiccato”
senza schiattare sul patibolo, uno spazio dove nascondere un oggetto
e ritrovarlo solo grazie a tre indicazioni – “acqua”,
se si era completamente fuori strada, “fuochino”,
se ci
si stava avvicinando, “fuoco”
se si
era a un passo – o un fazzoletto
che serviva da bandierina. E se perdevi, c’era la penitenza. Ovvero
“dire,
fare, baciare, lettera o testamento”.
E
se qualcuno storce un po' il naso a pensare una seriosa filologa
capottarsi senza ritegno dal ridere vedendo il bidello Mario
(l'indimenticabile Massimo Troisi) ed il maestro elementare Saverio
(Roberto Benigni), catapultati per un buffo scherzo del destino a
Frittole
nel 1492, alle prese con un doganiere che, entrato in una sorta di
looping, continua a chiedere loro, noncurante delle loro risposte,
«Ehi! Chi siete? Cosa fate? Cosa portate? Sì ma, quanti siete? Un
fiorino!»
o il goffo Pasquale Baudaffi (aka Lino Banfi) prima nelle vesti di
cameriere, alle dipendenze di un rude titolare poco tollerante degli
errori, ed esasperato da originali ordinazioni (ora un
caffè con un po’ di humor,
ora con
un goccio d'utopia),
poi apprendista in una azienda elettronica, chiamato a svolgere
mansioni alienanti (come zufolare
nell’avvisatore acustico per avviare il circuito Y di rigore)
con un direttore schizofrenico e pieno di tic, tale dottor Tomas, è
perché non ha mai visto “Non
ci resta che piangere”
e “Vieni
avanti cretino”,
due perle della cinematografia anni Ottanta.
Ben
vengano dunque revival come quello di ieri, per soffermarci a
chiederci, anche noi come Raf,
cosa resterà degli anni Ottanta e per provare quella stessa
sensazione di quando ci imbattiamo, in fase di trasloco o di pulizie
di primavera, in una scatola malconcia e che sa un po' di muffa,
tenuta insieme con lo scotch e con dentro le istruzioni ingiallite.
Proprio non sappiamo resistere: estraiamo quel cimelio della nostra
infanzia e iniziamo a giocare (e
ricordatevi: se ha gli occhiali, la pelata e la faccia un po’ da
culo, o è Tom o è Sam!).
A
Stefano
Gallarini
e a Giorgio
De Luca
quindi, un grazie di cuore per l'invito e per l'accoglienza!