venerdì 23 gennaio 2015

DITELO A DOMENICO


Non sono una grande amante dei centri commerciali ma se proprio è necessario, allora vado mirata, lista alla mano come una brava massaia, evitando i giorni e le ore da bollino rosso, più veloce del “figlio del vento” Carl Lewis nello scegliere, pesare frutta e verdura, controllare le date di scadenza dei prodotti, depositarli nel carrellino prima e sul nastro alla cassa poi, il tutto riuscendo a fare lo slalom tra i bradipo-acquirenti, nella speranza che l'incursione si riveli il più indolore possibile.
Non mi fermo ad ascoltare i video dimostrativi sulla portentosa aspirapolvere che ti ramazza casa con la sola forza del tuo pensiero, non sto a colloquiare con amici e parenti fortuitamente incontrati e potrebbe anche esserci Cracco spiaggiato nella corsia della pasta e del riso che comunque io non arresto la mia marcia (su quest'ultimo punto, però, concedetemi il beneficio del ripensamento).
Ma ieri...
Ieri succede che mentre sono alla ricerca della cassiera più lesta, sento strillare: «Dome', veni 'cca! Chi patri sii? U figghjolu mori e illu staci fora a fumari».
(Postilla per Domenico: quando una donna usa la terza persona singolare pur avendo a cinque centimetri di distanza dal suo naso l'interlocutore del suo discorso diretto, marca male, malissimo quindi la prossima volta, nei panni tuoi, Domenico, non escluderei di uscire di nuovo a fumartene un'altra, di sigaretta).
Forte della mia quasi quarantennale esperienza con il dialetto calabrese, capisco che una disperata signora si trova in una situazione di estrema difficoltà. Appena la raggiungo però vedo una corpulenta ragazzina dai capelli arruffati, estremamente esacerbata col marito (cui riesce, pur nel marasma generale creatosi, a rivolgere i peggio insulti), intenta a scuotere energicamente a testa in giù un bimbo di circa tre anni, ripetendo «A racina! A racina!».
Riassumendo: il problema è che al pupo è andato di traverso un acino d'uva, che lì per lì – forse complice la calma serafica materna? – non riusciva né a sputare né a deglutire del tutto.
Il padre improvvisa dapprima una abborracciata manovra di Heimlich, poi gli infila due dita in gola infine inizia ad ascoltare il parere del terzo e del quarto (suggerimenti che vanno dal «I bambini piccoli devo essere educati a masticare un boccone almeno quindici volte prima di ingoiarlo altrimenti muoiono soffocati» al «Bisogna cullarlo e calmarlo poi il suo corpo si rimetterà in sesto da solo» passando per un «Ma non lo sa che non si mangia a scrocco? Se prima pagava e poi consumava non sarebbe successo!»... Signore proteggici!) perché tutti sono pedagoghi coi figli degli altri e improvvisarsi Montessori è un attimo, noncuranti del fatto che nel frattempo il figlioletto, dopo aver bevuto un bicchiere di coca, aveva emesso un rutto rilevato anche dai sismografi giapponesi e il dramma era rientrato da dieci minuti.




È evidente che i coniugi devono essersi persi i rivoluzionari risultati cui è approdato il columnist del New York Times, Bruce Feiler, il quale, dopo lunghi anni di ricerche sociologiche e scientifiche, è riuscito ad elencare le principali caratteristiche di una famiglia in base alla cui presenza o assenza è possibile predire il benessere emotivo dei bambini, il rendimento scolastico e i problemi di comportamento.
Ecco le principali.

1.) La storia di famiglia
I bambini che sanno più cose sulla storia della loro famiglia (soprattutto se si tratta di momenti difficili e di sfide affrontate) prendono atto che nella vita ci sono alti e bassi, non crescono rincoglioniti convinti che la vita sia un Peppa Pig World (questo l'ho aggiunto io), hanno più fiducia in se stessi e si sentono più capaci di controllare il loro mondo.

2.) Le riunioni settimanali
Così come negli affari, anche in famiglia per migliorare, occorre ritrovarsi per una ventina di minuti almeno una volta alla settimana per fare un bilancio sugli equilibri interni e domandarsi su quali aspetti bisogna lavorare per rendere il gruppo più efficiente.
Già mi vedo il buon Domenico vestito come Briatore spronare i suoi a collaborare per avere una “vita da soGNo”.

3.) La mission di famiglia
Secondo Feiler, bisogna sviluppare una «dichiarazione d’intenti» generale, tipo sedersi tutto intorno al tavolo ed individuare obiettivi tipo (cito testuali parole): «Vogliamo essere una famiglia che va in campeggio d'estate» oppure «Vogliamo essere una famiglia che bisticcia in maniera costruttiva».
Questa sera provo anche io a proporre al Rose, dopo che si è sparato 12 ore di lavoro, un sit-in finalizzato alla ricerca della mission per la family.
Giusto per vedere di nascosto l'effetto che fa.

4.) La cena in famiglia
Le ricerche di Feiler hanno dimostrato che cenare in famiglia può cambiare la qualità della vita dei figli. I bambini che mangiano con i genitori e i fratelli hanno un lessico più ricco, buone maniere, un’alimentazione più sana e maggiore autostima. Inoltre da adulti, sarebbero meno propensi a bere, fumare, drogarsi, rimanere incinta prima del tempo, suicidarsi e sviluppare disturbi alimentari.
Alcuni di loro entro il primo anno di età hanno anche vinto il Nobel.

5.) Litigare bene
Bill Ury, fondatore del «Project on Negotiation» della Harvard Law School, nei suoi corsi insegna a litigare in maniera assennata.
La procedura consta di tre parti.
Prima: separarsi, andare in balcone, respirare e ridimensionare la rabbia.
Seconda: tornare dentro proponendo minimo tre alternative per risolvere la lite.
Terza: aprire una serie di trattative e concordare insieme la soluzione migliore.
Caro il mio Bill, quando ti parte l'embolo o sei Giobbe o col piffero che nel bel mezzo di un acceso litigio vai sul balcone a fare due respiri profondi per poi fare ritorno sul ring nei panni di Mahatma Gandhi.

Feiler comunque conclude il suo best seller “The Secrets of Happy Families” con una notizia rincuorante. Gli studiosi hanno scoperto, confrontando i bambini adottati con quelli cresciuti da genitori biologici, che non ci sono sostanziali differenze fra gli uni e gli altri in come vivono la vita famigliare e assolutamente nessuna nella capacità di instaurare buoni rapporti con i coetanei ergo chiunque, a prescindere dai fallimenti pregressi, può avere una famiglia felice.
Quindi c'è una speranza anche per quel poveraccio del centro commerciale che, al di là dell'immagine di padre degenere che ne ha dato la gentil consorte, in dieci minuti l'epiteto più carino che si è sentito rivolgere davanti a una nutrita rappresentanza di biellesi accorsi è stato quello di “minchjuni”?
Basta inserire l'episodio della “racina” tra quelli bui da raccontare al “figghjolu” quando cresce, iscrivere la mogliettina ai corsi di Ury e inserire tra le missions di famiglia anche la voce “Vogliamo essere una famiglia che al supermercato va per fare la spesa e non per dare spettacolo”.
Qualcuno lo vada a dire a Domenico!