Non
sono una grande amante dei
centri commerciali
ma se proprio è necessario, allora vado mirata, lista alla mano come
una brava massaia, evitando i giorni e le ore da bollino rosso, più
veloce del “figlio del vento” Carl Lewis
nello scegliere, pesare frutta e verdura, controllare le date di
scadenza dei prodotti, depositarli nel carrellino prima e sul nastro
alla cassa poi, il tutto riuscendo a fare lo slalom tra i
bradipo-acquirenti, nella speranza che l'incursione si riveli il più
indolore possibile.
Non
mi fermo ad ascoltare i video dimostrativi sulla portentosa
aspirapolvere che ti ramazza casa con la sola forza del tuo pensiero,
non sto a colloquiare con amici e parenti fortuitamente incontrati e
potrebbe anche esserci Cracco
spiaggiato
nella corsia della pasta e del riso che comunque io non arresto la
mia marcia (su quest'ultimo punto, però, concedetemi il beneficio
del ripensamento).
Ma
ieri...
Ieri
succede che mentre sono alla ricerca della cassiera più lesta, sento
strillare: «Dome',
veni 'cca! Chi patri sii? U figghjolu mori e illu staci fora a
fumari».
(Postilla
per Domenico:
quando una donna usa la terza persona singolare pur avendo a cinque
centimetri di distanza dal suo naso l'interlocutore del suo discorso
diretto, marca male, malissimo quindi la prossima volta, nei panni
tuoi, Domenico, non escluderei di uscire di nuovo a fumartene
un'altra, di sigaretta).
Forte
della mia quasi quarantennale esperienza con il dialetto calabrese,
capisco che una disperata signora si trova in una situazione di
estrema difficoltà. Appena la raggiungo però vedo una corpulenta
ragazzina dai capelli arruffati, estremamente esacerbata col marito
(cui riesce, pur nel marasma generale creatosi, a rivolgere i peggio
insulti), intenta a scuotere energicamente a testa in giù un bimbo
di circa tre anni, ripetendo «A
racina! A racina!».
Riassumendo:
il problema è che al pupo è andato di traverso un acino d'uva, che
lì per lì – forse complice la calma serafica materna? – non
riusciva né a sputare né a deglutire del tutto.
Il
padre improvvisa dapprima una abborracciata manovra
di Heimlich, poi gli infila due dita in gola infine inizia ad
ascoltare il parere del terzo e del quarto (suggerimenti che vanno
dal «I bambini piccoli devo essere educati a masticare un boccone
almeno quindici volte prima di ingoiarlo altrimenti muoiono
soffocati» al «Bisogna cullarlo e calmarlo poi il suo corpo si
rimetterà in sesto da solo» passando per un «Ma non lo sa che non
si mangia a scrocco? Se prima pagava e poi consumava non sarebbe
successo!»... Signore proteggici!) perché
tutti sono pedagoghi coi figli degli altri e improvvisarsi Montessori
è un attimo,
noncuranti del fatto che nel frattempo il figlioletto, dopo aver
bevuto un bicchiere di coca, aveva emesso un
rutto rilevato anche dai sismografi giapponesi
e il dramma era rientrato da dieci minuti.
È
evidente che i coniugi devono essersi persi i rivoluzionari risultati
cui è approdato il
columnist del New York Times, Bruce Feiler,
il quale, dopo lunghi anni di ricerche sociologiche e scientifiche, è
riuscito ad elencare le principali caratteristiche di una famiglia in
base alla cui presenza o assenza è possibile predire il benessere
emotivo dei bambini, il rendimento scolastico e i problemi di
comportamento.
Ecco le principali.
1.)
La storia di famiglia
I
bambini che sanno più cose sulla storia della loro famiglia
(soprattutto se si tratta di momenti difficili e di sfide affrontate)
prendono atto che nella vita ci sono alti e bassi, non
crescono rincoglioniti
convinti
che la vita sia un Peppa
Pig
World (questo
l'ho aggiunto io), hanno più fiducia in se stessi e si sentono più
capaci di controllare il loro mondo.
2.)
Le riunioni settimanali
Così come negli
affari, anche in famiglia per migliorare, occorre ritrovarsi per una
ventina di minuti almeno una volta alla settimana per fare un
bilancio sugli equilibri interni e domandarsi su quali aspetti
bisogna lavorare per rendere il gruppo più efficiente.
Già mi vedo il buon
Domenico vestito come Briatore spronare i suoi a collaborare per
avere una “vita da soGNo”.
3.)
La mission di famiglia
Secondo
Feiler, bisogna sviluppare una «dichiarazione d’intenti»
generale, tipo sedersi tutto intorno al tavolo ed individuare
obiettivi tipo (cito testuali parole): «Vogliamo essere una famiglia
che va in campeggio d'estate» oppure «Vogliamo essere una famiglia
che bisticcia in maniera costruttiva».
Questa
sera provo anche io a proporre al Rose, dopo che si è sparato 12 ore
di lavoro, un sit-in finalizzato alla ricerca della
mission per la family.
Giusto
per vedere di nascosto l'effetto che fa.
4.)
La cena in famiglia
Le
ricerche di Feiler hanno dimostrato che cenare in famiglia può
cambiare la qualità della vita dei figli. I bambini che mangiano con
i genitori e i fratelli hanno un lessico più ricco, buone maniere,
un’alimentazione più sana e maggiore autostima. Inoltre da adulti,
sarebbero meno propensi a bere, fumare, drogarsi, rimanere incinta
prima del tempo, suicidarsi e sviluppare disturbi alimentari.
Alcuni
di loro entro il primo anno di età hanno anche vinto il Nobel.
5.)
Litigare bene
Bill
Ury, fondatore del «Project on Negotiation» della Harvard Law
School, nei suoi corsi insegna a litigare in maniera assennata.
La
procedura consta di tre parti.
Prima:
separarsi, andare in balcone, respirare e ridimensionare la rabbia.
Seconda:
tornare dentro proponendo minimo tre alternative per risolvere la
lite.
Terza:
aprire una serie di trattative e concordare insieme la soluzione
migliore.
Caro il mio Bill,
quando ti parte l'embolo o sei Giobbe o col piffero che nel bel mezzo
di un acceso litigio vai sul balcone a fare due respiri profondi per
poi fare ritorno sul ring nei panni di Mahatma
Gandhi.
Feiler
comunque conclude il suo best seller “The
Secrets of Happy Families”
con una notizia rincuorante. Gli studiosi hanno scoperto,
confrontando i bambini adottati con quelli cresciuti da genitori
biologici, che non ci sono sostanziali differenze fra gli uni e gli
altri in come vivono la vita famigliare e assolutamente nessuna nella
capacità di instaurare buoni rapporti con i coetanei ergo
chiunque, a prescindere dai fallimenti pregressi, può avere una
famiglia felice.
Quindi
c'è
una speranza
anche per quel poveraccio del centro commerciale che, al di là
dell'immagine di padre degenere che ne ha dato la gentil consorte, in
dieci minuti l'epiteto più carino che si è sentito rivolgere
davanti a una nutrita rappresentanza di biellesi accorsi è stato
quello di “minchjuni”?
Basta
inserire l'episodio della “racina” tra quelli bui da raccontare
al “figghjolu” quando cresce, iscrivere la mogliettina ai corsi
di Ury e inserire tra le missions di famiglia anche la voce “Vogliamo
essere una famiglia che al supermercato va per fare la spesa e non
per dare spettacolo”.
Qualcuno
lo vada a dire a Domenico!