giovedì 5 aprile 2018

OCCHIO PER OCCHIO


Che poi, uno dice: s'è trovato al posto giusto nel momento giusto.
Già, ma ci si deve anche rendere conto che quello è il posto giusto, che quello è il momento giusto, si deve pur prendere in qualche modo atto della fortunata cospirazione del Fato.
E poi che sia “giusto” chi lo stabilisce?
E se ti trovi al posto giusto nel momento sbagliato?
Boh. Non so.
È che mi è tornato in mente un vecchio episodio del passato e mi sono persa via in riflessioni un po' caleidoscopiche, come quando uno guarda una nuvola nel cielo e prima ci vede le sembianze di un elefante, poi di un anziano col bastone, poi di una meringa. Una situazione così, insomma: pensieri mutevoli partendo dal medesimo dato di fatto, osservando lo stesso oggetto o situazione o persona.
Ma facciamo che vi racconto come è andata.
Era metà luglio del 1995, avevo vent'anni e con i miei genitori mi trovavo in vacanza in un villaggio turistico incastonato in una tranquilla baia sullo Ionio, mare cristallino, a pranzo e cena specialità della cucina locale, Cirò e Zibibbo come se piovesse, animazione iper-attiva, risveglio muscolare, gioco aperitivo, balli di gruppo, torneo di carte, attività ludico-sportive varie, cabaret serale, frizzi e lazzi, musica, ricchi premi e cotillon, tutto bello, per la miseria quanto mi sto divertendo, se non che...
Una mattina mi lacrima leggermente un occhio. Massì, sarà un po' di irritazione, penso.
Vado in farmacia, spiego il problema, il tipo mi rivolge uno sguardo svogliato e mi allunga delle blande gocce decongestionanti.
Mi accingo a pagare quando sopraggiunge la controfigura del Tenerone del Drive In, quanto a voce e a circonferenza vita, con la sola differenza che addosso aveva un camice e sì, le orecchie forse erano un po' più corte.

Mi blocca la faccia con la mano sinistra, col pollice e indice della destra divarica con energia l'occhio incriminato, roba che a momenti il bulbo mi schizza fuori, mi alita addosso ipotesi che non comprendo, poi va a cercare in un cassetto il prodotto giusto e lo lancia con fare alquanto scazzato sul bancone.
«Due gocce, in entrambi gli occhi. Ogni ora» sentenzia.
«Ma è grave?» mi azzardo a domandare visto il clima funereo che aleggiava nella stanza.
Lui si limita a schioccare la lingua fra i denti alzando il capo leggermente all'indietro, gesto che ho interpretato come un rassicurante No.
«Signorì, sei fortunata tu! – mi dice il tipo delle blande gocce decongestionanti – perché sei proprio al posto giusto, nel momento giusto. Il Dottò è il primario di oftalmologia dell'ospedale, sai?»
Ah sì? Che culo davvero!
Rasserenata torno in albergo e seguo le prescrizioni.
A pranzo l'occhio continua a lacrimare e faccio fatica a tenerlo aperto. Ok, inizio a sentirmi Polifemo però mi ha visitata un luminare in materia: che sarà mai?, mi ripeto.
Nel pomeriggio anche l'occhio che prima era sano inizia a lacrimare mentre nell'altro è come se di tanto in tanto qualcuno dall'interno gli desse una scartavetrata bella decisa.
Di sera entrambi gli occhi bruciano, lacrimano copiosamente e al tipo che scartavetra dall'interno è sopraggiunto uno che dall'esterno ci conficca dentro un punteruolo. Porcatroia, informo i miei (ma in realtà il villaggio intero a causa di una specie di sirena bitonale che l'agitazione deve aver posizionato a mia insaputa nelle corde vocali), corriamo in ospedale!
Al Pronto Soccorso mi mettono la faccia sotto una luce molto forte e mentre una voce maschile chiede a mia madre se mi sono messa della soda caustica nell'occhio, una voce femminile ci informa che avevo perso definitivamente la vista in un occhio. Avrebbero fatto il possibile per salvarmi l'altro.
Ma non è finita qui.
Per due giorni rimango immobile in un letto, occhi bendati, flebo su flebo su flebo, senza ricevere dai miei neanche mezza visita. Gli infermieri entrano nella camerata, che a giudicare dalla voci deve essere abbastanza popolata, mi lasciano il vassoio del cibo sul comodino ma non ho nessuno che mi aiuti a mangiare, nessuno che mi dia un bicchiere d'acqua, nessuno che mi accompagni in bagno. E con un male assassino agli occhi, mezza testa fasciata e bloccata in un luogo che non conosco azzardare qualche passo in autonomia è davvero impensabile.
L'unica domanda che ho fatto in 48 ore è stata: «A che piano siamo?» Quando ho appreso di essere ahimè solo al primo, ho abbandonato i propositi suicidi: non mi sarei fatta abbastanza male o almeno non a sufficienza da morire subito e avere dolore anche da altre parti del corpo era un'idea da escludere. D'altronde le lenti agonie non mi sono mai piaciute, in qualunque campo della mia vita.
Il terzo giorno alle sei e mezza del mattino un gran trambusto sveglia tutto il reparto. Sento delle persone correre, altre urlare «Voi qui non potete entrare», altre ancora rispondere «Noi invece ci entriamo, eccome» e poi finalmente mia madre con voce da Gestapo intimare «Ditemi subito dov'è mia figlia, S-U-B-I-T-O-!»
Cos'era successo?
Andiamo con ordine.
Inizialmente è probabile io avessi una banalissima congiuntivite allergica che poi si è trasformata in un'ustione corneale a causa del sovradosaggio di cortisone, contenuto nelle gocce del luminare della farmacia. Ma come mi aveva detto il tipo? Ah sì, che sono proprio fortunata, io!
Arrivata al Pronto Soccorso, i medici hanno visto i miei occhi, certo, ma anche un piccolo tatuaggio che ho sul polso e hanno fatto un erroneo 2+2. In quelle settimane nella zona, casi come il mio erano molto frequenti perché si era diffusa una setta strana, i cui adepti dovevano superare varie prove, tra cui osservare il sole fino a causarsi un'ustione agli occhi. Al termine del test d'ingresso, la loro ammissione all'interno della cricca veniva sancita da un tatuaggio sulle braccia.
Posto giusto, momento giusto davvero!
I dottori, accampando scuse alquanto improbabili, avevano proibito ai miei le visite fino a quando la caparbietà di mia madre, coadiuvata da una nutrita rappresentanza di suoi congiunti residenti nei paraggi, ha avuto la meglio.
Sono stata trasportata a casa, curata da medici bravissimi e la vista – tiè – mica l'ho persa alla fine, certo non sarà da lince ma trovo che gli occhiali mi donino un casino.
I due mesi successivi, quando ancora dovevo stare bendata, non sono stati una passeggiata: in più di un'occasione, ad esempio quando ho dovuto imparare a ficcarmi creme oftalmiche spesse come la malta dentro agli occhi o a prendere confidenza col buio che invadeva le mie giornate, ho dovuto lottare per tenere il morale a galla. Ma quando ti viene a mancare la bussola delle abitudini che ti orienta le giornate, quando non hai più spazi esterni certi entro cui muoverti devi trovare un baricentro abbastanza solido dentro di te che ti sproni a inventarti una nuova routine, fatta di voci, racconti, ascolto, fantasia.
Quando ripenso a quel periodo, non posso fare a meno di chiedermi: Ma come ho fatto? Dove si trova la forza di pensare positivo quando ci si rende conto che la propria vita viene rigirata al contrario, passata in centrifuga e poi infilata dentro al Pastamatic?
 

Alla fine stai a vedere che è vero: i limiti sono solo nella nostra testa.
Ecco, i limiti. Tutta questa storia mi è tornata alla mente perché qualche giorno fa discorrevo con la mia amica Bibix proprio di quello: degli argini che siamo noi stessi a porci forse per la paura di affrontare prove che crediamo più grandi di noi, delle barriere che costruiamo quando ci sentiamo vulnerabili, di quelle insicurezze che ci invadono quando ci autosabotiamo fiaccati dalla paura di non farcela.
«I limiti sono lì per ricordarci che siamo noi i padroni del nostro potenziale, siamo noi che decidiamo dove e come andare. Così come per tutte quelle situazioni che sembrano senza via d'uscita e che invece, in un modo o nell'altro, alla fine sfanghiamo» constatava lei.
E allora ben vengano argini e barriere, purché la loro vista ci faccia trovare la forza di prendere un'adeguata rincorsa per superarli.

mercoledì 21 marzo 2018

MALEDETTA PRIMAVERA


ASPETTANDO IL POST DELLA MICHI Sin dalle elementari e fino all'ultimo anno del Classico mi hanno sempre appioppato come compagni di banco i casi più disperati della classe col compito improbo di riportare i testoni sulla retta via preparando insieme a loro interrogazioni, verifiche, temi, cazzi&mazzi, imposizione che ha fatto nascere in me un disperato culto del “chi fa per sé, fa per tre”. Contemporaneamente però, essendo cresciuta per desiderio paterno a pane e palla a spicchi, il basket mi ha fatto capire l'importanza del gioco di squadra, della cooperazione e dell'impegno collettivo per il raggiungimento di uno scopo comune. Non per niente il mio idolo, Michael Jordan, sosteneva che “Talent wins games, but teamwork wins championship”, cioè il talento fa vincere le partite, ma è il lavoro di gruppo che aiuta a vincere un campionato.
Le due esperienze antitetiche mi hanno fatto sviluppare un certo bipolarismo in materia ma in età adulta il problema non si è più posto: si sa, quello della filologa è un lavoro solitario e l'unico contatto obbligato col consesso umano è quello con i committenti rognosi!
Poi, qualche mese fa, sull'inserto domenicale del Corriere (La Lettura del 10 settembre 2017), a poche settimane dalla morte di Jerry Lewis, leggo un articolo sul declino dei binomi nel mondo dello spettacolo: nessun più Ginger e Fred, Al Bano e Romina, Terence Hill e Bud Spencer, Cochi e Renato, Boldi e De Sica... uh, che tragedia!
E sempre qualche mese fa incontro lei: certo a prima vista la mora montanara polemica e la bionda genovese diplomatica sembrano aver poco a che spartire ma una forte passione comune per la scrittura e alcune sfumature caratteriali simili sono stati il collante perfetto per il nostro sodalizio.
Farmi più in là per condividere ogni tanto questo spazio con lei mi è sembrata una proposta naturale, convinta che una più l'altra non sia un'addizione, ma una moltiplicazione. Di idee. Di entusiasmo. Di stimoli positivi.
D'altronde lo sosteneva anche Stefano Accorsi quando pubblicizzava un gelato che Du gust is megl che uan!
Quindi, ora, spazio al primo post della Michi!

Primavera, dobbiamo parlare.
Lo vedi in che situazione ci troviamo? Nevica, a fine marzo. Vabbè, mi dirai, tutti a dire che non ci sono più le mezze stagioni… A un certo punto che deve fare una povera mezza stagione se non sparire e dargliela vinta una volta per tutte?
Però insomma, anche tu, cerca di crescere, non puoi mica fare gne gne per ogni cosa. È da cinquecento anni a questa parte che ti sei un po' montata la testa. Che se non era per Botticelli davvero che facevi tanto la schizzinosa.



Pensa un po’ alle tue responsabilità! Pensa a chi, come me, ti sta aspettando da mesi. E sono stati mesi duri, questo lo sai. Mesi in cui mi sono addormentata con lo scaldasonno impostato alla massima temperatura e ho rischiato di trovarmi rosolata come un pollo arrosto. Mesi in cui ho indossato i Moon-boot in casa perché i miei piedi non ne volevano sapere di scaldarsi. Mesi in cui chiunque incontrassi ha creduto che dovessi rivedere la mia alimentazione perché ogni giorno di questo dannato inverno sono uscita di casa che sembravo la madre dell’omino Michelin, e va bene che è matelassè e fa tanto moda, ma in fatto di forma fisica ha ampi margini di miglioramento.
Ma io mi sono fidata, ti ho detto che ti avrei aspettato e l’ho fatto, ma di te ancora nessun segno. Neanche quella rondine solinga che intanto è inutile perché comunque lei da sola non conta un cazzo. Poraccia, anche lei.


Lo sai che giorno è oggi? Lo sai, sì o no? È il giorno in cui dovresti muovere quel culone fiorito e venire tra noi. Non fare come quei maschi cattivi che ti dicono ti chiamo domani e poi niente, non si fanno sentire. Non è da te, dai.
Primavera, io te lo dico, se continui così, finisce che do ragione alla Goggi.

Written by Michela Rebuffel

mercoledì 14 marzo 2018

STORIA DI UNA BANCHIERA MILIONARIA, INSONNE E FINANCO ROMPICOGLIONI


Sul Corriere di domenica 11 marzo ho letto la triste storia di Sarvenaz Fouladi e della di lei madre, Fereschant Salamat, non senza annaffiare il quotidiano con abbondanti lacrime.
La sventurata trentottenne è una facoltosa banchiera di origine iraniana nonché proprietaria di un appartamento da quasi tre milioni di euro in un condominio di mattoni rossi di inizi Novecento, nel quartiere di Kensington, zona ovest di Londra.

 
A render grama la vita di Sarvy e Feresh è stato il trasloco nel 2010 dei coniugi Ahmed e Sarah El Kerrami con le loro frizzanti creature, al piano superiore. Roba che al confronto le cavallette e le rane nelle dieci piaghe d'Egitto sarebbero state una passeggiata di salute. I tre pargoli sono infatti i responsabili dell'inferno in terra della povera manager che ha dichiarato provata: «Fino a sette anni fa avevo tutto: una buona carriera, una bella casa e una magnifica vita sociale. Oggi sono così stanca al mattino che non riesco ad alzarmi in orario e arrivo spesso tardi al lavoro. Per restare sveglia, devo mangiare cioccolata». E ancora: «Spegnete quei bambini, per favore! O abbassate il loro volume, almeno di notte!», ha implorato.
E come darle torto.
Infatti il giudice Nicholas Parfitt, chiamato a dirimere la bega condominiale, ha considerato legittime le sue lamentele e ha stabilito un risarcimento record: quaranta sterline al giorno, per un totale di 107 mila sterline. Cioè, circa 120MILAEURO!
Che poi, stellina lei, c'hai pure ragione: dormire a intermittenza è una menata. Non a caso la privazione del sonno è una delle torture preferite dai militari di qualunque dittatura: svegliare continuamente una persona proprio mentre si sta addormentando alla lunga fa uscire di testa, tipo che il mattino dopo ti tiri su con due occhi sbarrati alla Jack Nicholson in “Shining”.


Ciononostante: 120MILAEURO, Sarvy, son sempre 120MILAEURO... cioè, mica cotiche! Non si poteva fare una cifretta meno esosa, anche solo l'impegno da parte degli El Kerrami di insonorizzare l'appartamento, e poi tutti a farsi due spaghi da te?
Comunque a nulla sono valse le perizie e le obiezioni dell'avvocato della controparte: «I rumori di cui si lagnano le inquiline del piano di sotto non sono altro che il prodotto di una normale vita famigliare» ha sostenuto, per concludere con un ineccepibile «Se non mentalmente instabili, quelle due sono quantomeno ipersensibili».
E tutto sommato è stato ancora gentile.
Questa storia mi ha fatto ricordare un episodio privato.
Un mio – ahimè! – congiunto (questo sì equiparabile a una piaga d'Egitto) quando mancava poco al parto della mia primogenita, era solito osservare con disgusto la mia pancia muoversi senza esimersi dall'esclamare soavi frasi quali «Che schifo!» o «Mi viene da vomitare!». Oggi, che sta per diventare padre, rimane in trance per ore a contemplare la panza della coniuge nonostante là sotto il figlio si muova stile “Alien”, declamando stilnovistiche odi alla maternità che nemmeno Tagore.
Ora: come si conciliano i due racconti?
Così: quando uno spara qualche vaccata bella potente, che magari offende pure qualcuno a lui limitrofo, in genere deve prepararsi a vedersela tornare indietro, la suddetta vaccata, come un boomerang, a tutta velocità. E che il Signore gli scartavetri pure la faccia con quella paletta falciforme nella sua traiettoria di ritorno, di già che c'è.
Cara la mia Sarvenaz – che già una che si ritrova un nome così, un pochetto suscettibile e incazzata di suo è legittimo lo sia – a te lo posso dire: anche io un tempo soffrivo di questa sindrome di Erode, ergo ero una cagacazzo imperiale in merito ai bipedi sotto il metro di altezza.
Anche io ho passato un periodo in cui sentivo la nanerottola dei vicini urlare a qualunque ora del giorno e DELLA NOTTE e io «GneGneGne: non riesco a lavorare!» [leggasi: adesso cerco il primo rivenditore di pannelli insonorizzati e gli compro il magazzino intero].
Anche io ho passato un periodo in cui sentivo la madre della nanerottola urlare a qualunque ora del giorno e DELLA NOTTE «Vieni qui, a mamma» e io di rimando «GneGneGne: non riesco a dormire!» [leggasi: mi state frullando le palle come un Minipimer].
Anche io ho passato un periodo in cui sentivo i genitori della nanerottola rispolverare in loop “Dolce Remì” e “Il caffè della Peppina” a qualunque ora del giorno e DELLA NOTTE e io «GneGneGne: non riesco a grattarmi l'alluce del piede sinistro in santa pace!» [leggasi: le più variopinte imprecazioni avevano messo il pilota automatico].
Ma poi: il boomerang (e tu non sai quanto sia stata felice di quel boomerang, ma questo resti fra di noi)!
Quindi, se per caso ti transita nella testolina l'idea di lavorare meno, smetterla di vivere con mammà, trovare un uomo che ti sopporti, magari pure, to' la butto lì, riprodurti, sappi che minimo minimo ti aspettano una ventina di ore di sonno spalmate su quarantadue (perché tu adesso ti sparerai almeno sei ore di dormita serafica a notte, no? Ecco, sappi che poi diventeranno tre, se tutto va bene), il colorito di un topo morto, l'occhio a saracinesca, tette che scendono verso il basso e capelli verso l'alto e occhiaie scavate con la ruspa, tiè! E mi auguro soprattutto che una pletora di vicini di casa tre volte più scassacazzi di te, nelle ore diurne, quando il pargolo ti lascerà un attimo di requie da peti e rigurgiti, facciano le prove (quelli alla tua destra) per lo Zecchino d'Oro stile Piccolo Coro dell'Antoniano (avrete una roba simile anche lì da voi, no?), decidano di cambiare la pavimentazione (quelli sopra di te) e trascorrano le ore postprandiali a perforare quella vecchia col martello pneumatico, ascoltino “Smell Like Teen Spirits” (quelli alla tua sinistra) a manetta e senza pausa, e per finire litighino (quelli di sotto) come nemmeno Michael Douglas e Kathleen Turner ne “La guerra dei Roses”, ri-tiè!
So: be carefull, dear Sarvenaz, perché the boomerang is behind the angolo!

martedì 6 marzo 2018

GOD SAVE THE REHEATED SOUP OVVERO VIVA LA MINESTRA RISCALDATA


Proprio non riesco a capire il perché di tanto accanimento linguistico contro la minestra.
Da “è sempre la solita minestra” a “far su un gran minestrone” passando per “o mangi la minestra o salti la finestra” fino a quel “è solo una minestra riscaldata” sono modi di dire italiani usati per indicare una situazione deludente, confusa, fallimentare, senza alternative.
Tutte frasi idiomatiche con connotazione negativa.
Ma a me la minestra riscaldata piace, sia quella reale che quella figurata.
Non parlo di ex che ritornano, ma della resurrezione di un'amicizia.
Perché alle volte siamo poco indulgenti nei confronti degli altri e troppo permissivi con noi stessi, tendiamo a passare sotto una lente di ingrandimento vere o presunte mancanze o sgarri subiti e a cercare mille inconsistenti giustificazioni a quelli che più o meno volontariamente commettiamo noi.
Perché un po' per orgoglio, un po' perché aspettiamo uno «Scusa, ho sbagliato» ma non riusciamo a dirlo noi per primi, un po' perché in certi momenti della vita è più facile andarsene che restare, lasciamo che ci pensi il tempo perché ci hanno insegnato che tanto quello aggiusta tutto, lo diceva anche Baglioni.
Ma l'unico risultato che otteniamo è che clof, passa un giorno, clop, ne passa un altro, cloch, un altro ancora (basta, mi fermo qui altrimenti vi faccio tutta La fontana malata diPalazzeschi) e le gocce di silenzi alla lunga riempiono il cuore di calcare.
E allora quando oggi ho saputo che lei sta vivendo un momento poco felice, non c'ho pensato su nemmeno un secondo. Ho preso il telefono e l'ho chiamata. In quel «Ciao, sono io» c'era stipato dentro tutto un anno di parole non dette, di “Ti ho pensata spesso ma non ho mai avuto il coraggio di farlo prima”, di “Siamo state due teste di cazzo”, di “Dove eravamo rimaste?”.
Quel suo «Mi sei mancata» ha sciolto tutta la ruggine del risentimento.
Perché quando c'è un sentimento forte, in un'amicizia o in una storia d'amore, non servono grandi discorsi.
Perché quando c'è un sentimento forte, in un'amicizia o in una storia d'amore, il rancore è un abito che cade male addosso.
Perché quando c'è un sentimento forte, in un'amicizia o in una storia d'amore, è sciocco non concedersi una seconda possibilità per questioni di principio.



E se la minestra riscaldata è un'occasione preziosa, che concediamo a noi stessi prima che all'altro per dimostrare a entrambi di aver imparato dagli errori commessi, io ho già il cucchiaio in mano.
Perché le voglio bene e il mio cuore lo voglio senza spuntoni di roccia.

giovedì 26 ottobre 2017

LA RELATIVITA' DEL SUPERLATIVO OVVERO ODE ALLA BIONDA


Alla fine non mi rivolge più la parola.
Lei.
A dire il vero, non so nemmeno il motivo.
Fatto sta che se mi incontra, cambia strada.
Lei.
Cose da non credere!
Lei.
Quella che si auto definiva “migliorissima amica”.
Diffidare dei superlativi assoluti!
Ma di che meravigliarsi? Mi risulta sia una tipologia diffusa: chi non ci ha fatto i conti almeno una volta in vita sua?
E poi si sa, rapportarsi con una potenziale amica è un po' come trovarsi davanti una Louis Vuitton: c'è un'alta probabilità sia tarocca.
Ma non generalizziamo: limitiamoci a osservare questa categoria.
Le esponenti della specie “migliorissima amica” (se a questo punto vi sembra di sentire in sottofondo l'Aria sulla Quarta Corda e Claudio Capone – voce storica dei documentari naturalistici – parlarvi della stagione dell'accoppiamento del tricheco fulvo, tranquilli: va tutto bene! Rientra nel taglio da divulgatore scientifico, un po' alla Quark, che vorrei dare all'analisi che segue, giusto per non sembrare troppo coinvolta nell'invettiva) sono quelle che, matita rossa e blu alla mano, passano alla moviola ogni tuo singolo respiro e poi se la prendono se al quinto «Ma perché non fai così?» o «Ma perché non fai cosà?», rispondi «Ma perché non ti fai i cazzi tuoi?» (e sotto sotto ti senti anche in colpa che ti sia scappata la frizione perché, dai, si sa: siamo un po' tutti fenomeni con la vita degli altri).
Sono quelle che si offendono se non vai alla trigesima del prozio ma non alzano il telefono per sapere l'esito dell'istologico.
Sono quelle che guardano con occhi invidiosi i tuoi progetti, vedendo in te quello che non hanno avuto il coraggio di diventare loro.
Quelle che ti ammorbano con i problemi digestivi del loro gatto, noncuranti del fatto che a te al solo sentire «Miao» venga la psoriasi, ma sono colte da disturbi afasici ad articolare un «Come stai?» quando ti sanno a letto con 39 di febbre.
Quelle che quanto a cucina e figli dispensano consigli che nemmeno Cannavacciuolo e tata Lucia, facendoti sentire un'inetta, nonostante loro ai fornelli sappiano fare a mala pena una frittata e di pargoli non ne abbiano nemmeno uno (ma questo tu, che sei una signora, ti guardi bene dal farglielo notare).
Quelle tutte «Io ci sarò sempre» e «Io non ti tradirò mai», senza calcolare che i manifesti programmatici così pretenziosi di solito partono in tromba ma poi finiscono in vacca.
Quelle che si chiudono una immaginaria cerniera sulle labbra e «Ti giuro che questa cosa non uscirà di qui» ma dopo qualche giorno scopri che la zip si deve essere rotta perché la metà delle persone che conosci sa proprio quello che non avrebbe mai dovuto sapere (d'altronde lo si legge anche nei Promessi Sposi che “una delle più grandi consolazioni di questa vita è l'amicizia”, peccato però che il Manzoni – che ci vedeva lungo – lo dicesse con ironia come la considerazione di due righe più sotto dimostra: “Quando un amico si procura la consolazione di deporre un segreto nel seno d'un altro, dà a costui la voglia di procurarsi la stessa consolazione anche lui”).
Le “migliorissime amiche” sono quelle che ti stanno accanto con commovente abnegazione quando la vita è un soggiorno all inclusive in un Club Med alle Maldive ma che quando annaspi immerso in un mare marrone (che non è cioccolato) ti piantano senza troppe remore come una carota nell'orto, quelle che davanti sono tutte sorrisi e complimenti ma appena ti giri usano la tua schiena come un bersaglio colorato contro cui lanciare senza ritegno le loro appuntite freccette.
Ah, le “migliorissime amiche”. Dovrebbe esserci un girone infernale di tate Lucie che brandiscono pargoli urlanti tra vomito di gatto mentre Cannavacciuolo prepara frittate marroni (no: dentro non c'è cioccolato!), per le “migliorissime amiche”.
Perché nelle vite degli altri si deve entrare in punta di piedi, chiedendo “Permesso” e “Per favore”, magari portando un fiore, di certo non il tuo cassonetto dell'immondizia.
Senza sventolare superlativi assoluti come se fossero vessilli di dedizione.
Al massimo con la predisposizione d'animo di voler condividere con l'altro i punti esperienza che fino a quel momento hai accumulato nel tuo percorso.
E sarebbe già tanta roba.
Così quando, stanca di questi rapporti asimmetrici, giungi alla conclusione che in fatto di amicizie la sfortuna non ti ha baciata in fronte, no no no, ti ha proprio limonato duro per ore, ecco che arriva lei, capelli biondi legati in una coda stropicciata, sguardo disincantato e il passo svelto che sembra una dichiarazione di guerra al mondo.

 
Ok, non ci sono le margherite (in compenso però le cacche sì) ma dove andavo a fotografare un campo con entrambi gli elementi alle sei e mezza di sera?


Lei non usa “mai”, non usa “per sempre”.
Non è da proclami altisonanti né una che ragiona alla Branduardi ne “Alla fiera dell'Est”.
Ma è una che va dritta al punto, senza troppi ricami.
Una che parla dei tuoi sogni usando il plurale.
Una che ti espone le sue osservazioni senza appesantirle coi giudizi.
Una che se le emozioni fossero una torta al cioccolato, non userebbe forchetta e coltello ma se la mangerebbe con le mani, contenta di sporcarsi pure la faccia.
Una che ti sa far vedere un cielo azzurro anche quando diluvia.
E allora non ti importa più delle Louis Vuitton taroccate (anzi, per dirla tutta: che siano benedette anche quelle se ti sono servite ad allenarti gli occhi!).
Smetti di recriminare e ti concedi un'altra possibilità.
Con lei te la senti di affrontare questa passeggiata in aperta campagna tra cacche di mucca e margherite, che è la vita, perché accanto sai di avere una che fa concentrare la tua attenzione sulle seconde mentre lei indirizza la sua a non farti pestare le prime.

mercoledì 8 febbraio 2017

MERAVIGLIOSO


Sono passati due anni dall'ultimo post.
Ricordo il mattino in cui l'ho scritto.
In quel periodo in cima alle mie preoccupazioni, a monopolizzare giornate ed energie c'erano pensieri tipo:
l'iscrizione del primogenito all'asilo
correggere le bozze del prossimo libro in uscita
le rate della macchina
i vaccini della secondogenita
la sconfitta della Roma contro la Juve a Torino
sollecitare il pagamento di un committente letargico
cambiare il divano
sfanculare l'amministratore per aver aumentato le spese condominiali
«Cheppalle inizia Sanremo... per un mese non si sentirà parlare d'altro»
Poi, un pomeriggio di febbraio vai in ospedale per una visita «Massì, giusto un controllo, signora: facciamo veloce».
Il controllo si trasforma in «Meglio fare una TAC, che stiamo tutti più tranquilli» e le posizioni dei tuoi pensieri si stravolgono improvvisamente con la stessa velocità con cui in stazione un tempo giravano le tessere del tabellone degli arrivi e partenze quando c'era un aggiornamento.



TAC
un viaggio di 300 km
visita specialistica
prelievi
risonanza magnetica
un altro viaggio di 300 km
«Torni qui la prossima settimana con la valigia»
un'operazione complicata
una complicanza postoperatoria
flebo, drenaggi, «Non possiamo ancora dimetterla», l'attesa dell'istologico, settimane lontano da casa...
Perché i cambiamenti quando arrivano, i grandi bivi della vita che quando te li trovi davanti niente sarà più come prima, non sono mai annunciati da squilli di tromba o da segnali luminosi.
E così capita che un pomeriggio di febbraio entri in ospedale per un controllo pensando a cosa cucinerai per cena e di sera ti metti a tavola constatando che la vita che conoscevi non esiste più.
In quei giorni mi sono tornate alla memoria due immagini... vuoi l'effetto collaterale di certi antidolorifici, vuoi che per non impazzire durante la degenza, non potendo né leggere, né scrivere, né guardare la televisione cerchi di fare andare la testa. E la testa, per tenerti compagnia, si mette a ravanare qua e là nel tuo passato riportandoti in superficie episodi che avevi completamente rimosso.
«Oh Betta, non fare tanto cinema: non tutto il male viene per nuocere! Vedrai che tra un po' di tempo ci riderai su» mi suggeriva la nonna Wanda quando mi vedeva affranta dalle prime delusioni esistenziali.
«Oh nonna, porcatroia, “ci riderò su” sto cavolo!» pensavo tutte le volte, quando ancora le tragedie del mio piccolo mondo erano riassumibili nel ragazzo di Roma, conosciuto in vacanza, che non mi considerava, nei miei che mi vietavano di rincasare oltre la mezzanotte o nel prof. di greco che mi aveva dato SOLO sei al sette per la versione (giusto per rassicurare la mia prole: negli anni ho modificato la mia personalissima interpretazione dei giudizi alfanumerici scolastici e oggi no, non considero più bassi quei voti al di sotto del distinto e/o del sette!).
Dopo la nonna, è stata la volta di un fotogramma legato a suor Tecla. Prima di darmi il permesso di vivere in appartamento da sola a Milano, i miei mi hanno parcheggiata un anno in collegio. Uno dei pochissimi aspetti positivi dell'altrimenti infausta esperienza è stato proprio l'incontro con quella vecchietta che quando mi vedeva girovagare per i corridoi con aria troppo pensosa mi ricordava amorevolmente le parole di Matteo: «Ad ogni giorno basta la sua pena!»
Erano due donne concrete, la Wanda e la Tecla, non amavano fare lunghi discorsi e non ci voleva loro molto per intuire che tipo di interlocutore avessero davanti. Per questo quando aprivano bocca non era mai per dire qualche banalità.
Peccato che quella loro saggezza spiccia ai tempi mi fosse entrata da un orecchio e uscita dall'altro. Ma certi insegnamenti fanno dei giri immensi, come gli amori che canta Venditti in “Amici mai”, e poi ritornano.
La propensione a prendere i casi della vita con una eccessiva dose di parossismo l'ho avuta sin da ragazzina. E accanto a questo anche la fissa, sempre consumata come ero da mille progetti, di proiettarmi avanti, troppo avanti: stilare liste, individuare mete e tragitti professionali meglio di un Tom Tom, spuntare liste, preventivare imprevisti, pianificare nei dettagli un domani manco fosse formato di mattoncini Lego, noncurante dei segnali ben precisi che il Cosmo mi inviava e cioè che la vita se ne fotte dei tuoi programmi, anzi, ama assai incasinarteli.
Così nella valigia del ritorno non ho volutamente trovato spazio per quella attitudine al planning forzoso né per quella pantagruelica fame di emozioni che mi portava a vivere tutto negli eccessi.
In compenso però a casa ho portato l'impegno ad accettare con serenità quello che non posso cambiare e a modificare quello che invece posso, la promessa di occuparmi delle rogne quotidiane senza PRE-occuparmene e a vivere il presente senza permettere a ipertrofiche seghe mentali di sporcare i miei entusiasmi.
La tragedia – quella vera, non il ragazzo di Roma (per quanto - va detto - questo travagliato amore giovanile è stata una spina al cuore, ai tempi) o il prof. di greco – quando arriva ti taglia le gambe, ti annebbia la vista, ti fa schizzare il cuore a terra.



Ma se hai la fortuna di avere accanto qualcuno che ti sorregge quando le gambe cedono, ti guida quando la vista è confusa e si china a raccoglierti il cuore schiantato, allora è vero, nonna: non tutto il male viene per nuocere e certe tranvate epocali possono aprirti la strada a cambiamenti salvifici.
E poi lo diceva anche il tuo cantante preferito che nessuna notte è infinita e che, con il giusto margine di tempo, anche il dolore può apparire meraviglioso.