giovedì 5 aprile 2018

OCCHIO PER OCCHIO


Che poi, uno dice: s'è trovato al posto giusto nel momento giusto.
Già, ma ci si deve anche rendere conto che quello è il posto giusto, che quello è il momento giusto, si deve pur prendere in qualche modo atto della fortunata cospirazione del Fato.
E poi che sia “giusto” chi lo stabilisce?
E se ti trovi al posto giusto nel momento sbagliato?
Boh. Non so.
È che mi è tornato in mente un vecchio episodio del passato e mi sono persa via in riflessioni un po' caleidoscopiche, come quando uno guarda una nuvola nel cielo e prima ci vede le sembianze di un elefante, poi di un anziano col bastone, poi di una meringa. Una situazione così, insomma: pensieri mutevoli partendo dal medesimo dato di fatto, osservando lo stesso oggetto o situazione o persona.
Ma facciamo che vi racconto come è andata.
Era metà luglio del 1995, avevo vent'anni e con i miei genitori mi trovavo in vacanza in un villaggio turistico incastonato in una tranquilla baia sullo Ionio, mare cristallino, a pranzo e cena specialità della cucina locale, Cirò e Zibibbo come se piovesse, animazione iper-attiva, risveglio muscolare, gioco aperitivo, balli di gruppo, torneo di carte, attività ludico-sportive varie, cabaret serale, frizzi e lazzi, musica, ricchi premi e cotillon, tutto bello, per la miseria quanto mi sto divertendo, se non che...
Una mattina mi lacrima leggermente un occhio. Massì, sarà un po' di irritazione, penso.
Vado in farmacia, spiego il problema, il tipo mi rivolge uno sguardo svogliato e mi allunga delle blande gocce decongestionanti.
Mi accingo a pagare quando sopraggiunge la controfigura del Tenerone del Drive In, quanto a voce e a circonferenza vita, con la sola differenza che addosso aveva un camice e sì, le orecchie forse erano un po' più corte.

Mi blocca la faccia con la mano sinistra, col pollice e indice della destra divarica con energia l'occhio incriminato, roba che a momenti il bulbo mi schizza fuori, mi alita addosso ipotesi che non comprendo, poi va a cercare in un cassetto il prodotto giusto e lo lancia con fare alquanto scazzato sul bancone.
«Due gocce, in entrambi gli occhi. Ogni ora» sentenzia.
«Ma è grave?» mi azzardo a domandare visto il clima funereo che aleggiava nella stanza.
Lui si limita a schioccare la lingua fra i denti alzando il capo leggermente all'indietro, gesto che ho interpretato come un rassicurante No.
«Signorì, sei fortunata tu! – mi dice il tipo delle blande gocce decongestionanti – perché sei proprio al posto giusto, nel momento giusto. Il Dottò è il primario di oftalmologia dell'ospedale, sai?»
Ah sì? Che culo davvero!
Rasserenata torno in albergo e seguo le prescrizioni.
A pranzo l'occhio continua a lacrimare e faccio fatica a tenerlo aperto. Ok, inizio a sentirmi Polifemo però mi ha visitata un luminare in materia: che sarà mai?, mi ripeto.
Nel pomeriggio anche l'occhio che prima era sano inizia a lacrimare mentre nell'altro è come se di tanto in tanto qualcuno dall'interno gli desse una scartavetrata bella decisa.
Di sera entrambi gli occhi bruciano, lacrimano copiosamente e al tipo che scartavetra dall'interno è sopraggiunto uno che dall'esterno ci conficca dentro un punteruolo. Porcatroia, informo i miei (ma in realtà il villaggio intero a causa di una specie di sirena bitonale che l'agitazione deve aver posizionato a mia insaputa nelle corde vocali), corriamo in ospedale!
Al Pronto Soccorso mi mettono la faccia sotto una luce molto forte e mentre una voce maschile chiede a mia madre se mi sono messa della soda caustica nell'occhio, una voce femminile ci informa che avevo perso definitivamente la vista in un occhio. Avrebbero fatto il possibile per salvarmi l'altro.
Ma non è finita qui.
Per due giorni rimango immobile in un letto, occhi bendati, flebo su flebo su flebo, senza ricevere dai miei neanche mezza visita. Gli infermieri entrano nella camerata, che a giudicare dalla voci deve essere abbastanza popolata, mi lasciano il vassoio del cibo sul comodino ma non ho nessuno che mi aiuti a mangiare, nessuno che mi dia un bicchiere d'acqua, nessuno che mi accompagni in bagno. E con un male assassino agli occhi, mezza testa fasciata e bloccata in un luogo che non conosco azzardare qualche passo in autonomia è davvero impensabile.
L'unica domanda che ho fatto in 48 ore è stata: «A che piano siamo?» Quando ho appreso di essere ahimè solo al primo, ho abbandonato i propositi suicidi: non mi sarei fatta abbastanza male o almeno non a sufficienza da morire subito e avere dolore anche da altre parti del corpo era un'idea da escludere. D'altronde le lenti agonie non mi sono mai piaciute, in qualunque campo della mia vita.
Il terzo giorno alle sei e mezza del mattino un gran trambusto sveglia tutto il reparto. Sento delle persone correre, altre urlare «Voi qui non potete entrare», altre ancora rispondere «Noi invece ci entriamo, eccome» e poi finalmente mia madre con voce da Gestapo intimare «Ditemi subito dov'è mia figlia, S-U-B-I-T-O-!»
Cos'era successo?
Andiamo con ordine.
Inizialmente è probabile io avessi una banalissima congiuntivite allergica che poi si è trasformata in un'ustione corneale a causa del sovradosaggio di cortisone, contenuto nelle gocce del luminare della farmacia. Ma come mi aveva detto il tipo? Ah sì, che sono proprio fortunata, io!
Arrivata al Pronto Soccorso, i medici hanno visto i miei occhi, certo, ma anche un piccolo tatuaggio che ho sul polso e hanno fatto un erroneo 2+2. In quelle settimane nella zona, casi come il mio erano molto frequenti perché si era diffusa una setta strana, i cui adepti dovevano superare varie prove, tra cui osservare il sole fino a causarsi un'ustione agli occhi. Al termine del test d'ingresso, la loro ammissione all'interno della cricca veniva sancita da un tatuaggio sulle braccia.
Posto giusto, momento giusto davvero!
I dottori, accampando scuse alquanto improbabili, avevano proibito ai miei le visite fino a quando la caparbietà di mia madre, coadiuvata da una nutrita rappresentanza di suoi congiunti residenti nei paraggi, ha avuto la meglio.
Sono stata trasportata a casa, curata da medici bravissimi e la vista – tiè – mica l'ho persa alla fine, certo non sarà da lince ma trovo che gli occhiali mi donino un casino.
I due mesi successivi, quando ancora dovevo stare bendata, non sono stati una passeggiata: in più di un'occasione, ad esempio quando ho dovuto imparare a ficcarmi creme oftalmiche spesse come la malta dentro agli occhi o a prendere confidenza col buio che invadeva le mie giornate, ho dovuto lottare per tenere il morale a galla. Ma quando ti viene a mancare la bussola delle abitudini che ti orienta le giornate, quando non hai più spazi esterni certi entro cui muoverti devi trovare un baricentro abbastanza solido dentro di te che ti sproni a inventarti una nuova routine, fatta di voci, racconti, ascolto, fantasia.
Quando ripenso a quel periodo, non posso fare a meno di chiedermi: Ma come ho fatto? Dove si trova la forza di pensare positivo quando ci si rende conto che la propria vita viene rigirata al contrario, passata in centrifuga e poi infilata dentro al Pastamatic?
 

Alla fine stai a vedere che è vero: i limiti sono solo nella nostra testa.
Ecco, i limiti. Tutta questa storia mi è tornata alla mente perché qualche giorno fa discorrevo con la mia amica Bibix proprio di quello: degli argini che siamo noi stessi a porci forse per la paura di affrontare prove che crediamo più grandi di noi, delle barriere che costruiamo quando ci sentiamo vulnerabili, di quelle insicurezze che ci invadono quando ci autosabotiamo fiaccati dalla paura di non farcela.
«I limiti sono lì per ricordarci che siamo noi i padroni del nostro potenziale, siamo noi che decidiamo dove e come andare. Così come per tutte quelle situazioni che sembrano senza via d'uscita e che invece, in un modo o nell'altro, alla fine sfanghiamo» constatava lei.
E allora ben vengano argini e barriere, purché la loro vista ci faccia trovare la forza di prendere un'adeguata rincorsa per superarli.

mercoledì 21 marzo 2018

MALEDETTA PRIMAVERA


ASPETTANDO IL POST DELLA MICHI Sin dalle elementari e fino all'ultimo anno del Classico mi hanno sempre appioppato come compagni di banco i casi più disperati della classe col compito improbo di riportare i testoni sulla retta via preparando insieme a loro interrogazioni, verifiche, temi, cazzi&mazzi, imposizione che ha fatto nascere in me un disperato culto del “chi fa per sé, fa per tre”. Contemporaneamente però, essendo cresciuta per desiderio paterno a pane e palla a spicchi, il basket mi ha fatto capire l'importanza del gioco di squadra, della cooperazione e dell'impegno collettivo per il raggiungimento di uno scopo comune. Non per niente il mio idolo, Michael Jordan, sosteneva che “Talent wins games, but teamwork wins championship”, cioè il talento fa vincere le partite, ma è il lavoro di gruppo che aiuta a vincere un campionato.
Le due esperienze antitetiche mi hanno fatto sviluppare un certo bipolarismo in materia ma in età adulta il problema non si è più posto: si sa, quello della filologa è un lavoro solitario e l'unico contatto obbligato col consesso umano è quello con i committenti rognosi!
Poi, qualche mese fa, sull'inserto domenicale del Corriere (La Lettura del 10 settembre 2017), a poche settimane dalla morte di Jerry Lewis, leggo un articolo sul declino dei binomi nel mondo dello spettacolo: nessun più Ginger e Fred, Al Bano e Romina, Terence Hill e Bud Spencer, Cochi e Renato, Boldi e De Sica... uh, che tragedia!
E sempre qualche mese fa incontro lei: certo a prima vista la mora montanara polemica e la bionda genovese diplomatica sembrano aver poco a che spartire ma una forte passione comune per la scrittura e alcune sfumature caratteriali simili sono stati il collante perfetto per il nostro sodalizio.
Farmi più in là per condividere ogni tanto questo spazio con lei mi è sembrata una proposta naturale, convinta che una più l'altra non sia un'addizione, ma una moltiplicazione. Di idee. Di entusiasmo. Di stimoli positivi.
D'altronde lo sosteneva anche Stefano Accorsi quando pubblicizzava un gelato che Du gust is megl che uan!
Quindi, ora, spazio al primo post della Michi!

Primavera, dobbiamo parlare.
Lo vedi in che situazione ci troviamo? Nevica, a fine marzo. Vabbè, mi dirai, tutti a dire che non ci sono più le mezze stagioni… A un certo punto che deve fare una povera mezza stagione se non sparire e dargliela vinta una volta per tutte?
Però insomma, anche tu, cerca di crescere, non puoi mica fare gne gne per ogni cosa. È da cinquecento anni a questa parte che ti sei un po' montata la testa. Che se non era per Botticelli davvero che facevi tanto la schizzinosa.



Pensa un po’ alle tue responsabilità! Pensa a chi, come me, ti sta aspettando da mesi. E sono stati mesi duri, questo lo sai. Mesi in cui mi sono addormentata con lo scaldasonno impostato alla massima temperatura e ho rischiato di trovarmi rosolata come un pollo arrosto. Mesi in cui ho indossato i Moon-boot in casa perché i miei piedi non ne volevano sapere di scaldarsi. Mesi in cui chiunque incontrassi ha creduto che dovessi rivedere la mia alimentazione perché ogni giorno di questo dannato inverno sono uscita di casa che sembravo la madre dell’omino Michelin, e va bene che è matelassè e fa tanto moda, ma in fatto di forma fisica ha ampi margini di miglioramento.
Ma io mi sono fidata, ti ho detto che ti avrei aspettato e l’ho fatto, ma di te ancora nessun segno. Neanche quella rondine solinga che intanto è inutile perché comunque lei da sola non conta un cazzo. Poraccia, anche lei.


Lo sai che giorno è oggi? Lo sai, sì o no? È il giorno in cui dovresti muovere quel culone fiorito e venire tra noi. Non fare come quei maschi cattivi che ti dicono ti chiamo domani e poi niente, non si fanno sentire. Non è da te, dai.
Primavera, io te lo dico, se continui così, finisce che do ragione alla Goggi.

Written by Michela Rebuffel

mercoledì 14 marzo 2018

STORIA DI UNA BANCHIERA MILIONARIA, INSONNE E FINANCO ROMPICOGLIONI


Sul Corriere di domenica 11 marzo ho letto la triste storia di Sarvenaz Fouladi e della di lei madre, Fereschant Salamat, non senza annaffiare il quotidiano con abbondanti lacrime.
La sventurata trentottenne è una facoltosa banchiera di origine iraniana nonché proprietaria di un appartamento da quasi tre milioni di euro in un condominio di mattoni rossi di inizi Novecento, nel quartiere di Kensington, zona ovest di Londra.

 
A render grama la vita di Sarvy e Feresh è stato il trasloco nel 2010 dei coniugi Ahmed e Sarah El Kerrami con le loro frizzanti creature, al piano superiore. Roba che al confronto le cavallette e le rane nelle dieci piaghe d'Egitto sarebbero state una passeggiata di salute. I tre pargoli sono infatti i responsabili dell'inferno in terra della povera manager che ha dichiarato provata: «Fino a sette anni fa avevo tutto: una buona carriera, una bella casa e una magnifica vita sociale. Oggi sono così stanca al mattino che non riesco ad alzarmi in orario e arrivo spesso tardi al lavoro. Per restare sveglia, devo mangiare cioccolata». E ancora: «Spegnete quei bambini, per favore! O abbassate il loro volume, almeno di notte!», ha implorato.
E come darle torto.
Infatti il giudice Nicholas Parfitt, chiamato a dirimere la bega condominiale, ha considerato legittime le sue lamentele e ha stabilito un risarcimento record: quaranta sterline al giorno, per un totale di 107 mila sterline. Cioè, circa 120MILAEURO!
Che poi, stellina lei, c'hai pure ragione: dormire a intermittenza è una menata. Non a caso la privazione del sonno è una delle torture preferite dai militari di qualunque dittatura: svegliare continuamente una persona proprio mentre si sta addormentando alla lunga fa uscire di testa, tipo che il mattino dopo ti tiri su con due occhi sbarrati alla Jack Nicholson in “Shining”.


Ciononostante: 120MILAEURO, Sarvy, son sempre 120MILAEURO... cioè, mica cotiche! Non si poteva fare una cifretta meno esosa, anche solo l'impegno da parte degli El Kerrami di insonorizzare l'appartamento, e poi tutti a farsi due spaghi da te?
Comunque a nulla sono valse le perizie e le obiezioni dell'avvocato della controparte: «I rumori di cui si lagnano le inquiline del piano di sotto non sono altro che il prodotto di una normale vita famigliare» ha sostenuto, per concludere con un ineccepibile «Se non mentalmente instabili, quelle due sono quantomeno ipersensibili».
E tutto sommato è stato ancora gentile.
Questa storia mi ha fatto ricordare un episodio privato.
Un mio – ahimè! – congiunto (questo sì equiparabile a una piaga d'Egitto) quando mancava poco al parto della mia primogenita, era solito osservare con disgusto la mia pancia muoversi senza esimersi dall'esclamare soavi frasi quali «Che schifo!» o «Mi viene da vomitare!». Oggi, che sta per diventare padre, rimane in trance per ore a contemplare la panza della coniuge nonostante là sotto il figlio si muova stile “Alien”, declamando stilnovistiche odi alla maternità che nemmeno Tagore.
Ora: come si conciliano i due racconti?
Così: quando uno spara qualche vaccata bella potente, che magari offende pure qualcuno a lui limitrofo, in genere deve prepararsi a vedersela tornare indietro, la suddetta vaccata, come un boomerang, a tutta velocità. E che il Signore gli scartavetri pure la faccia con quella paletta falciforme nella sua traiettoria di ritorno, di già che c'è.
Cara la mia Sarvenaz – che già una che si ritrova un nome così, un pochetto suscettibile e incazzata di suo è legittimo lo sia – a te lo posso dire: anche io un tempo soffrivo di questa sindrome di Erode, ergo ero una cagacazzo imperiale in merito ai bipedi sotto il metro di altezza.
Anche io ho passato un periodo in cui sentivo la nanerottola dei vicini urlare a qualunque ora del giorno e DELLA NOTTE e io «GneGneGne: non riesco a lavorare!» [leggasi: adesso cerco il primo rivenditore di pannelli insonorizzati e gli compro il magazzino intero].
Anche io ho passato un periodo in cui sentivo la madre della nanerottola urlare a qualunque ora del giorno e DELLA NOTTE «Vieni qui, a mamma» e io di rimando «GneGneGne: non riesco a dormire!» [leggasi: mi state frullando le palle come un Minipimer].
Anche io ho passato un periodo in cui sentivo i genitori della nanerottola rispolverare in loop “Dolce Remì” e “Il caffè della Peppina” a qualunque ora del giorno e DELLA NOTTE e io «GneGneGne: non riesco a grattarmi l'alluce del piede sinistro in santa pace!» [leggasi: le più variopinte imprecazioni avevano messo il pilota automatico].
Ma poi: il boomerang (e tu non sai quanto sia stata felice di quel boomerang, ma questo resti fra di noi)!
Quindi, se per caso ti transita nella testolina l'idea di lavorare meno, smetterla di vivere con mammà, trovare un uomo che ti sopporti, magari pure, to' la butto lì, riprodurti, sappi che minimo minimo ti aspettano una ventina di ore di sonno spalmate su quarantadue (perché tu adesso ti sparerai almeno sei ore di dormita serafica a notte, no? Ecco, sappi che poi diventeranno tre, se tutto va bene), il colorito di un topo morto, l'occhio a saracinesca, tette che scendono verso il basso e capelli verso l'alto e occhiaie scavate con la ruspa, tiè! E mi auguro soprattutto che una pletora di vicini di casa tre volte più scassacazzi di te, nelle ore diurne, quando il pargolo ti lascerà un attimo di requie da peti e rigurgiti, facciano le prove (quelli alla tua destra) per lo Zecchino d'Oro stile Piccolo Coro dell'Antoniano (avrete una roba simile anche lì da voi, no?), decidano di cambiare la pavimentazione (quelli sopra di te) e trascorrano le ore postprandiali a perforare quella vecchia col martello pneumatico, ascoltino “Smell Like Teen Spirits” (quelli alla tua sinistra) a manetta e senza pausa, e per finire litighino (quelli di sotto) come nemmeno Michael Douglas e Kathleen Turner ne “La guerra dei Roses”, ri-tiè!
So: be carefull, dear Sarvenaz, perché the boomerang is behind the angolo!

martedì 6 marzo 2018

GOD SAVE THE REHEATED SOUP OVVERO VIVA LA MINESTRA RISCALDATA


Proprio non riesco a capire il perché di tanto accanimento linguistico contro la minestra.
Da “è sempre la solita minestra” a “far su un gran minestrone” passando per “o mangi la minestra o salti la finestra” fino a quel “è solo una minestra riscaldata” sono modi di dire italiani usati per indicare una situazione deludente, confusa, fallimentare, senza alternative.
Tutte frasi idiomatiche con connotazione negativa.
Ma a me la minestra riscaldata piace, sia quella reale che quella figurata.
Non parlo di ex che ritornano, ma della resurrezione di un'amicizia.
Perché alle volte siamo poco indulgenti nei confronti degli altri e troppo permissivi con noi stessi, tendiamo a passare sotto una lente di ingrandimento vere o presunte mancanze o sgarri subiti e a cercare mille inconsistenti giustificazioni a quelli che più o meno volontariamente commettiamo noi.
Perché un po' per orgoglio, un po' perché aspettiamo uno «Scusa, ho sbagliato» ma non riusciamo a dirlo noi per primi, un po' perché in certi momenti della vita è più facile andarsene che restare, lasciamo che ci pensi il tempo perché ci hanno insegnato che tanto quello aggiusta tutto, lo diceva anche Baglioni.
Ma l'unico risultato che otteniamo è che clof, passa un giorno, clop, ne passa un altro, cloch, un altro ancora (basta, mi fermo qui altrimenti vi faccio tutta La fontana malata diPalazzeschi) e le gocce di silenzi alla lunga riempiono il cuore di calcare.
E allora quando oggi ho saputo che lei sta vivendo un momento poco felice, non c'ho pensato su nemmeno un secondo. Ho preso il telefono e l'ho chiamata. In quel «Ciao, sono io» c'era stipato dentro tutto un anno di parole non dette, di “Ti ho pensata spesso ma non ho mai avuto il coraggio di farlo prima”, di “Siamo state due teste di cazzo”, di “Dove eravamo rimaste?”.
Quel suo «Mi sei mancata» ha sciolto tutta la ruggine del risentimento.
Perché quando c'è un sentimento forte, in un'amicizia o in una storia d'amore, non servono grandi discorsi.
Perché quando c'è un sentimento forte, in un'amicizia o in una storia d'amore, il rancore è un abito che cade male addosso.
Perché quando c'è un sentimento forte, in un'amicizia o in una storia d'amore, è sciocco non concedersi una seconda possibilità per questioni di principio.



E se la minestra riscaldata è un'occasione preziosa, che concediamo a noi stessi prima che all'altro per dimostrare a entrambi di aver imparato dagli errori commessi, io ho già il cucchiaio in mano.
Perché le voglio bene e il mio cuore lo voglio senza spuntoni di roccia.