Che
poi, uno dice: s'è trovato al
posto giusto nel momento giusto.
Già,
ma ci si deve anche rendere conto che quello è il posto giusto, che
quello è il momento giusto, si deve pur prendere in qualche modo
atto della fortunata cospirazione del Fato.
E
poi che sia “giusto” chi lo stabilisce?
E
se ti trovi al posto giusto nel momento sbagliato?
Boh.
Non so.
È
che mi è tornato in mente un vecchio episodio del passato e mi sono
persa via in riflessioni un po' caleidoscopiche, come quando uno
guarda una nuvola nel cielo e prima ci vede le sembianze di un
elefante, poi di un anziano col bastone, poi di una meringa. Una
situazione così, insomma: pensieri mutevoli partendo dal medesimo
dato di fatto, osservando lo stesso oggetto o situazione o persona.
Ma
facciamo che vi racconto come è andata.
Era
metà luglio del 1995, avevo vent'anni e con i miei genitori mi trovavo in vacanza in un villaggio turistico
incastonato in una tranquilla baia sullo Ionio, mare cristallino, a
pranzo e cena specialità della cucina locale, Cirò e Zibibbo come
se piovesse, animazione iper-attiva, risveglio muscolare, gioco
aperitivo, balli di gruppo, torneo di carte, attività
ludico-sportive varie, cabaret serale, frizzi e lazzi, musica, ricchi
premi e cotillon, tutto bello, per la miseria quanto mi sto
divertendo, se
non che...
Una
mattina mi lacrima leggermente un occhio. Massì,
sarà
un po'
di irritazione,
penso.
Vado
in farmacia, spiego il problema, il tipo mi rivolge uno sguardo
svogliato e mi allunga delle blande gocce decongestionanti.
Mi
accingo a pagare quando sopraggiunge la controfigura del Tenerone del
Drive In, quanto a voce e a circonferenza vita, con la sola
differenza che addosso aveva un camice e sì, le orecchie forse erano
un po' più corte.
Mi
blocca la faccia con la mano sinistra, col pollice e indice della
destra divarica con energia l'occhio incriminato, roba che a momenti
il bulbo mi schizza fuori, mi alita addosso ipotesi che non
comprendo, poi va a cercare in un cassetto il prodotto giusto e lo
lancia con fare alquanto scazzato sul bancone.
«Due
gocce, in entrambi gli occhi. Ogni ora» sentenzia.
«Ma
è grave?» mi azzardo a domandare visto il clima funereo che
aleggiava nella stanza.
Lui
si limita a schioccare la lingua fra i denti alzando il capo
leggermente all'indietro, gesto che ho interpretato come un
rassicurante No.
«Signorì,
sei fortunata tu! – mi dice il tipo delle blande gocce
decongestionanti – perché sei proprio al posto giusto, nel momento
giusto. Il Dottò è il primario di oftalmologia dell'ospedale, sai?»
Ah
sì? Che culo davvero!
Rasserenata
torno in albergo e seguo le prescrizioni.
A
pranzo l'occhio continua a lacrimare e faccio fatica a tenerlo
aperto. Ok,
inizio a sentirmi Polifemo però
mi
ha visitata un luminare in materia: che sarà mai?,
mi ripeto.
Nel
pomeriggio anche l'occhio che prima era sano inizia a lacrimare
mentre nell'altro è come se di tanto in tanto qualcuno dall'interno
gli desse una scartavetrata bella decisa.
Di
sera entrambi gli occhi bruciano, lacrimano copiosamente e al tipo
che scartavetra dall'interno è sopraggiunto uno che dall'esterno ci
conficca dentro un punteruolo. Porcatroia,
informo i miei (ma in realtà il villaggio intero a causa di una
specie di sirena bitonale che l'agitazione deve aver posizionato a
mia insaputa nelle corde vocali), corriamo
in ospedale!
Al
Pronto Soccorso mi mettono la faccia sotto una luce molto forte e
mentre una voce maschile chiede a mia madre se mi sono messa della
soda caustica nell'occhio, una voce femminile ci informa che avevo
perso definitivamente la vista in un occhio. Avrebbero fatto il
possibile per salvarmi l'altro.
Ma
non è finita qui.
Per
due giorni rimango immobile in un letto, occhi bendati, flebo su
flebo su flebo, senza ricevere dai miei neanche mezza visita. Gli
infermieri entrano nella camerata, che a giudicare dalla voci deve
essere abbastanza popolata, mi lasciano il vassoio del cibo sul
comodino ma non ho nessuno che mi aiuti a mangiare, nessuno che mi
dia un bicchiere d'acqua, nessuno che mi accompagni in bagno. E con
un male assassino agli occhi, mezza testa fasciata e bloccata in un
luogo che non conosco azzardare qualche passo in autonomia è davvero
impensabile.
L'unica
domanda che ho fatto in 48 ore è stata: «A che piano siamo?»
Quando ho appreso di essere ahimè solo al primo, ho abbandonato i
propositi suicidi: non mi sarei fatta abbastanza male o almeno non a
sufficienza da morire subito e avere dolore anche da altre parti del
corpo era un'idea da escludere. D'altronde le lenti agonie non mi
sono mai piaciute, in qualunque campo della mia vita.
Il
terzo giorno alle sei e mezza del mattino un gran trambusto sveglia
tutto il reparto. Sento delle persone correre, altre urlare «Voi qui
non potete entrare», altre ancora rispondere «Noi invece ci
entriamo, eccome» e poi finalmente mia madre con voce da Gestapo
intimare «Ditemi subito dov'è mia figlia, S-U-B-I-T-O-!»
Cos'era
successo?
Andiamo
con ordine.
Inizialmente
è probabile io avessi una banalissima congiuntivite allergica che
poi si è trasformata in un'ustione corneale a causa del
sovradosaggio di cortisone, contenuto nelle gocce del luminare della
farmacia. Ma come mi aveva detto il tipo? Ah sì, che sono proprio
fortunata, io!
Arrivata
al Pronto Soccorso, i medici hanno visto i miei occhi, certo, ma
anche un piccolo tatuaggio che ho sul polso e hanno fatto un erroneo
2+2. In quelle settimane nella zona, casi come il mio erano molto
frequenti perché si era diffusa una
setta strana,
i cui adepti dovevano superare varie prove, tra cui osservare il sole
fino a causarsi un'ustione agli occhi. Al termine del test
d'ingresso, la loro ammissione all'interno della cricca veniva
sancita da un tatuaggio sulle braccia.
Posto
giusto, momento giusto davvero!
I dottori, accampando scuse alquanto improbabili, avevano proibito ai miei le visite fino a quando la caparbietà di mia madre, coadiuvata da una nutrita rappresentanza di suoi congiunti residenti nei paraggi, ha avuto la meglio.
I dottori, accampando scuse alquanto improbabili, avevano proibito ai miei le visite fino a quando la caparbietà di mia madre, coadiuvata da una nutrita rappresentanza di suoi congiunti residenti nei paraggi, ha avuto la meglio.
Sono
stata trasportata a casa, curata da medici bravissimi e la vista –
tiè
– mica l'ho persa alla fine, certo non sarà da lince ma trovo che
gli occhiali mi donino un casino.
I
due mesi successivi, quando ancora dovevo stare bendata, non sono
stati una passeggiata: in più di un'occasione, ad esempio quando ho
dovuto imparare a ficcarmi creme oftalmiche spesse come la malta
dentro agli occhi o a prendere confidenza col buio che invadeva le
mie giornate, ho dovuto lottare per tenere il morale a galla. Ma
quando ti viene a mancare la
bussola delle abitudini che ti orienta le giornate,
quando non hai più spazi esterni certi entro cui muoverti devi
trovare un baricentro abbastanza solido dentro di te
che ti sproni a inventarti una nuova routine, fatta di voci,
racconti, ascolto, fantasia.
Quando
ripenso a quel periodo, non posso fare a meno di chiedermi: Ma come
ho fatto? Dove si trova la forza di pensare positivo quando ci si rende conto che la propria vita viene rigirata al contrario, passata
in centrifuga e poi infilata dentro al Pastamatic?
Alla
fine stai a vedere che è vero: i
limiti sono solo nella nostra testa.
Ecco,
i limiti. Tutta questa storia mi è tornata alla mente perché
qualche giorno fa discorrevo con la mia amica Bibix
proprio di quello: degli argini che siamo noi stessi a porci forse
per la paura di affrontare prove che crediamo più grandi di noi,
delle barriere che costruiamo quando ci sentiamo vulnerabili, di
quelle insicurezze che ci invadono quando ci autosabotiamo fiaccati
dalla paura di non farcela.
«I
limiti sono lì per ricordarci che siamo noi i padroni del nostro
potenziale, siamo noi che decidiamo dove e come andare. Così come
per tutte quelle situazioni che sembrano senza via d'uscita e che
invece, in un modo o nell'altro, alla fine sfanghiamo» constatava
lei.
E
allora ben
vengano argini e barriere,
purché la loro vista ci faccia trovare la forza di prendere
un'adeguata rincorsa per superarli.