Ci
sono dei giorni che vorresti dimenticare e dei quali, invece, ricordi
purtroppo ogni singolo dettaglio.
Il
23
febbraio del 2009
era un lunedì.
La
giornata era stata più o meno la fotocopia delle circa cento che
l'avevano preceduta, un angoscioso, lento stillicidio di speranze
consumate al di qua e al di là del vetro di un reparto di
rianimazione.
La
telefonata dall'ospedale è arrivata alle 21 e 15.
Non
credo che ci sia un'età dopo la quale diventi più semplice
incassare certi colpi bassi del destino e non credo nemmeno esista
una specie di “dolorometro”
in grado di misurare l'intensità della sofferenza provata da Tizio o
da Caio (nonostante qualche cima, al funerale, mi si sia avvicinata
facendomi presente che comunque, tutto sommato, beh!, ero stata
fortunata ad aver avuto un padre come il Walter, «ma a trent'anni,
Betta, sei una donna e devi reagire»... pensa invece come stai messa
tu, cara D., che a cinquanta di anni ancora non hai capito che
talvolta a tacere si fa una più dignitosa figura). Alla fine della
fiera ognuno nella vita ha la sua corona di spine – anche quelli
che sembrano indossarla di fiori freschi – con la quale si trova a
fare i conti quotidianamente ed è libero di viversi, gestirsi,
volendo condividere o esternare i propri tormenti come meglio crede.
Senza che il terzo e il quarto gli vadano a fare un minuzioso quanto
inutile check up, conteggiando il numero delle spine o valutando
quanto possano essere aguzze.
Il
Walter non era solo il
mio “papino”:
all'occorrenza sapeva trasformarsi in fratello maggiore – migliore
amico, era la persona ideale per aiutarmi a superare le prime pseudo
sofferenze amorose (si veda ad esempio l'epilogo col cestistronzo,
festeggiato con un viaggio a Djerba), per accompagnarmi nei vari
stadi del nord Italia a vedere la Roma (nonostante la sua fede
nerazzurra) o nei locali alternativi per farmi scatenare ai più
disparati e disperati concerti.
Ecco,
quando perdi una persona così, non c'è alternativa: soffri e basta,
sia che tu di anni ne abbia 30, che 60, che 90!
Dopo
quella telefonata, ricordo di aver pensato ad una frase che avevo
letto in un libro di Daniel
Pennac,
della quale mi trovavo a condividere la triste verità: «Con la sua
morte avevo perso un'altra ragione di vivere, […] con lui non avevo
perso un amico, avevo perso la parte migliore di me stesso, un'ancora
strappata al cuore del mio essere, un pezzo del mio cuore
insanguinato appeso a quell'ancora levata».
Resettare
ciò che è stato cancellando la memoria senza nemmeno fare un back
up tanto quanto restare avvinti come l'edera a un passato che
inevitabilmente non può più tornare sono due escamotage drastici ed
inconcludenti.
In
nessuno dei due modi – sperimentati con insuccesso – si riesce ad
attenuare quel grumo denso di sofferenza che ti si piazza all'altezza
dello sterno quando cerchi ovunque intorno a te qualcuno che non può
più tornare.
Allora
bisogna cambiare
direzione
e non cercare più fuori.
Solo
il tempo, se intelligentemente speso facendosi un viaggio dentro se
stessi, può aiutare a smussare le punte più acuminate di quelle
spine. Il dolore inizia ad evaporare mentre restano, indelebili, i
ricordi e i sentimenti legati a quella persona, ciò che ti ha
insegnato, i momenti belli vissuti insieme, i suoi pregi e i suoi
difetti, le sue passioni, la sua battuta sempre pronta, il modo unico
che aveva di storpiare le canzoni di Zucchero.
Forse
ha proprio ragione Gramellini
quando in un suo “Buongiorno” del maggio 2012, dedicato alla
commemorazione di Carlo Fruttero al Salone del Libro di Torino,
sosteneva che i morti andrebbero ricordati sempre e soltanto con un
sorriso. Come
se fossero vivi.
D'altronde
ci sono persone che anche quando “escono” dalla stanza della tua
vita, lasciano comunque la
luce accesa.
E per me, papà Walter, è una di queste.