martedì 26 febbraio 2013

LUCI ACCESE

Ci sono dei giorni che vorresti dimenticare e dei quali, invece, ricordi purtroppo ogni singolo dettaglio.
Il 23 febbraio del 2009 era un lunedì.
La giornata era stata più o meno la fotocopia delle circa cento che l'avevano preceduta, un angoscioso, lento stillicidio di speranze consumate al di qua e al di là del vetro di un reparto di rianimazione.
La telefonata dall'ospedale è arrivata alle 21 e 15.


Non credo che ci sia un'età dopo la quale diventi più semplice incassare certi colpi bassi del destino e non credo nemmeno esista una specie di “dolorometro” in grado di misurare l'intensità della sofferenza provata da Tizio o da Caio (nonostante qualche cima, al funerale, mi si sia avvicinata facendomi presente che comunque, tutto sommato, beh!, ero stata fortunata ad aver avuto un padre come il Walter, «ma a trent'anni, Betta, sei una donna e devi reagire»... pensa invece come stai messa tu, cara D., che a cinquanta di anni ancora non hai capito che talvolta a tacere si fa una più dignitosa figura). Alla fine della fiera ognuno nella vita ha la sua corona di spine – anche quelli che sembrano indossarla di fiori freschi – con la quale si trova a fare i conti quotidianamente ed è libero di viversi, gestirsi, volendo condividere o esternare i propri tormenti come meglio crede. Senza che il terzo e il quarto gli vadano a fare un minuzioso quanto inutile check up, conteggiando il numero delle spine o valutando quanto possano essere aguzze.
Il Walter non era solo il mio “papino”: all'occorrenza sapeva trasformarsi in fratello maggiore – migliore amico, era la persona ideale per aiutarmi a superare le prime pseudo sofferenze amorose (si veda ad esempio l'epilogo col cestistronzo, festeggiato con un viaggio a Djerba), per accompagnarmi nei vari stadi del nord Italia a vedere la Roma (nonostante la sua fede nerazzurra) o nei locali alternativi per farmi scatenare ai più disparati e disperati concerti.
Ecco, quando perdi una persona così, non c'è alternativa: soffri e basta, sia che tu di anni ne abbia 30, che 60, che 90!
Dopo quella telefonata, ricordo di aver pensato ad una frase che avevo letto in un libro di Daniel Pennac, della quale mi trovavo a condividere la triste verità: «Con la sua morte avevo perso un'altra ragione di vivere, […] con lui non avevo perso un amico, avevo perso la parte migliore di me stesso, un'ancora strappata al cuore del mio essere, un pezzo del mio cuore insanguinato appeso a quell'ancora levata».
Resettare ciò che è stato cancellando la memoria senza nemmeno fare un back up tanto quanto restare avvinti come l'edera a un passato che inevitabilmente non può più tornare sono due escamotage drastici ed inconcludenti.
In nessuno dei due modi – sperimentati con insuccesso – si riesce ad attenuare quel grumo denso di sofferenza che ti si piazza all'altezza dello sterno quando cerchi ovunque intorno a te qualcuno che non può più tornare.
Allora bisogna cambiare direzione e non cercare più fuori.
Solo il tempo, se intelligentemente speso facendosi un viaggio dentro se stessi, può aiutare a smussare le punte più acuminate di quelle spine. Il dolore inizia ad evaporare mentre restano, indelebili, i ricordi e i sentimenti legati a quella persona, ciò che ti ha insegnato, i momenti belli vissuti insieme, i suoi pregi e i suoi difetti, le sue passioni, la sua battuta sempre pronta, il modo unico che aveva di storpiare le canzoni di Zucchero.
Forse ha proprio ragione Gramellini quando in un suo “Buongiorno” del maggio 2012, dedicato alla commemorazione di Carlo Fruttero al Salone del Libro di Torino, sosteneva che i morti andrebbero ricordati sempre e soltanto con un sorriso. Come se fossero vivi.
D'altronde ci sono persone che anche quando “escono” dalla stanza della tua vita, lasciano comunque la luce accesa. E per me, papà Walter, è una di queste.

giovedì 14 febbraio 2013

I HAVE NEVER LOVED YOU MORE

Avviso importante:
la lettura di questo post è sconsigliata
a chi soffre di diabete
e a chi è appena stato dal dentista
e non vuole tornarci presto per carie diffuse ai ¾ dei denti

Parliamoci chiaro: di scrivere un post zuccheroso in occasione di San Valentino io non ci pensavo proprio. Il fatto è che sono assolutamente contraria all'usanza di dedicare una giornata a questo o a quello, vuoi alla mamma, vuoi agli innamorati, vuoi alla donna... La mamma, gli innamorati, le donne esistono 365 giorni l'anno, mica ce se ne ricorda in uno soltanto.
Tanto più che a me il 14 febbraio porta una sfiga inenarrabile (ve ne racconto solo uno, il San Valentino del 2006. Primo anno di matrimonio. Finito il lavoro nell'archivio pulcioso, mi fiondo a fare la spesa e poi a casa convinta, con i superpoteri di cui non dispongo, di riuscire in un'ora e mezza – tempo che mi separava dall'arrivo del Rose – a fare nell'ordine: cenetta a lume di candela articolata in antipasto, primo, secondo e dolce, rassettamento veloce della casa, doccia e restauro. Il mio piano si è arenato miserevolmente al punto uno, quando sovrappensiero ho immerso il minipimer nella terrina. Dimenticandoci dentro il dito. Vi tralascio il seguito splatter. I miei funambolici programmi per la serata sono miseramente naufragati ma io – se la cosa vi può interessare – ho ancora dieci dita. Dicono che si dovrebbe sempre cercare il lato positivo!).
Ma non divaghiamo.
Si diceva della mia reticenza a parlare di San Valentino, cioè di quell'amore eccessivamente magnificato nelle canzoni e nei libri che si leggono sotto l'ombrellone, insomma di quel concetto di amore idealizzato e poco aderente al reale (d'altronde si sa come vanno le cose: all'inizio ci sono le farfalle nello stomaco, si hanno gli occhi a forma di cuore, ci si sente in preda a una incontrollabile dissenteria emotiva. Ma poi gli slanci passionali si placano, subentra la routine e inizia la lagnosa tiritera del «Non sei più come una volta»... ma questa è materia buona per un altro post).
Poi ho guardato il calendario, i miei post escono generalmente di giovedì e così ho pensato fosse un eccellente pretesto per dimostrare che d'amore una donna può anche parlare senza per forza cadere fastidiosamente nel melenso.


Tanto più che ad illustrare il concetto ho scelto l'esempio offerto da due uomini.
Partiamo da Barack Obama. Le avete sentite tutti le parole dedicate alla moglie sul palco del McCormick Center dopo la sua rielezione il 6 novembre 2012?
«Non sarei l'uomo che sono oggi senza la donna che vent'anni fa ha accettato di sposarmi. Lasciate che lo dica pubblicamente: Michelle, non ti ho mai amato tanto».
Permettetemi un triviale ma genuino “STICAZZI!”.
L'altro esempio è un po' più triste ma ugualmente paradigmatico di un grande, anzi eterno, amore.
Lui è il magnate della pubblicità Maurice Saatchi il quale in una recente intervista al “Sunday Times” ha dichiarato che dopo la scomparsa nel giugno 2011 dell'adorata moglie Josephine (cioè la celebre scrittrice irlandese, autrice de “Il Danno”, Josephine Hart) per lui «continuare a vivere è un tradimento oltre che un gesto di puro egoismo».
Ma non è tutto. Lord Saatchi, che ogni mattina è solito far colazione sulla tomba della consorte per continuare a sentirla vicina, ha confessato di augurarsi di riuscire a raggiungerla al più presto: «Il mio amore per Josephine è stato talmente forte che ci ha fatto diventare una persona sola. E questo niente e nessuno lo cambierà mai».
Nemmeno la morte.
Se l'amore è amore, direbbe Venditti...