Qualche
giorno fa abbiamo lasciato la nostra Elisabetta in preda alle
coliche, alle prese con i primi accertamenti clinici al Pronto
Soccorso.
Come
andrà a finire la sua “reality-fiction” (in questo
racconto, infatti, che parte – ahimè! – da un fatto realmente
accaduto, il confine tra esperienza
personale e fantasia, tra realtà e finzione è alquanto labile.
Andatevi a leggere la prima parte, di venerdì 20 luglio)
Ecco
il secondo tempo!
Il primo Plasmon dopo giorni e giorni di digiuno! |
«Andiamo
a fare una radiografia. Salga sulla lettiga», esordisce un non
meglio identificato giovine bianco vestito. Scendere da questo
trespolo per risalire su quel coso? Con uno sforzo fisico-cerebrale
ai vertici? Ce la posso fare solo se mi dopate!
Sono
qui da tre ore e già mi hanno frantumato il frantumabile.
C'è
che il buon Dio quando ha distribuito la pazienza, non si è accorto
che mancavo all'appello (e se già non ne ho quando sto bene,
figuriamoci quando sono in queste condizioni!).
«Ti
ingordasti di sagne
chine?».
Rieccola. Prego? «Cosa hai mangiato ieri sera? Una teglia di sagne
chine?».
Dopo aver letto i sottotitoli, colgo anche l'ironia. Mi sfugge ancora
una cosa: sa...
che? «Sagne
chine
sta per lasagne ripiene. È una tipica pasta al forno calabrese con
polpette, uova sode, scamorza, mozzarella e pecorino grattugiato».
Solo? Penso io. Da questa parentesi gastronomica deduco la
provenienza e capisco il perché di quel suo accento strano. Mi sta
già più simpatica!
Macché
lasagne. Sono dieci giorni che seguo scrupolosamente una dieta detox
per riuscire a entrare di nuovo in quel tubino da urlo che avrei
indossato a (sigh!)
Parigi, dove, per inciso, avrei dovuto passare un week end fuori
porta con Etienne, il tipo fighissimo che ho conosciuto dieci giorni
fa.
Tutto
da disdire. Mi sento uno scampolo fallato, una Ferrari con le quattro
gomme bucate, un camino con la canna fumaria ostruita, un bug di
sistema, in poche parole una emme-e-erre-di-a!
Sono
in preda ad una strana specie di ballo di San Vito che mi fa
camminare ossessivamente su e già per il corridoio. Fino al
sopraggiungere della nuova colica. E di nuovo ricompare la buffa
Agnese. Mentre lei cerca di farmi ragionare e coricare sulla lettiga,
io continuo a guardarle la targhetta col nome e per tenere impegnato
l'unico neurone ancora sano (e non troppo coinvolto nel lamentarsi)
le chiedo: «Ma Agnese... la mamma di Lucia?». Lei mi risponde di
non avere figli. «No, intendo dire: hai presente Manzoni? Renzo e
Lucia?». Al che lei un po' seccata mi ripete che di Lucia conosce
solo una lontana zia che vive a Locri ma non la sente più da mesi.
Un siparietto imperdibile. Decido che forse è meglio seguire il
consiglio di AgnesecheperònonèlamammadiLucia. Mi sdraio, attendo
l'esito degli ultimi esami e sarà quel che sarà, come diceva anche
Tiziana Rivale.
Ricoverata.
Si prospettano davanti a me dieci giorni di degenza. Siamo solo al
primo. Sento la mancanza di Agnese, lei che sa sempre arrivare nel
momento giusto per rattoppare con le sue uscite improbabili il mio
morale malconcio. Che iella: oggi è il suo giorno libero.
Ecco,
in questo momento pagherei per essere una di quelle maghette dei
cartoni anni Ottanta, una di quelle ragazzine che con un oggetto da
quattro soldi a mo' di bacchetta e una formula magica strampalata
sapeva sempre come trasformare in suo favore anche la peggiore delle
catastrofi.
Secondo
giorno. Finalmente vedo sbucare Agnese. «Mi sento come se mi fosse
caduto il mondo addosso», le confido. «Hai presente quella della
televisione col caschetto biondo?» se ne esce lei. «Ma chi? La
Carrà?» chiedo io. «Eh sì, dovresti fare come dice lei». «E
cioè cosa? Mettermi a ballare il tuca tuca?» domando trasecolata.
«Ma no, dico quella canzone dove fa “Se per caso cadesse il mondo,
io mi sposto un po' più in là”. Capisci?»
Toma
toma, cacchia cacchia, la saggia Agnese fuor di metafora mi aveva
dato un consiglio tutt'altro che da buttare via fornendomi in un
colpo bacchetta e formula magica per affrontare questa degenza con un
animo diverso. Basta passare il tempo a lamentarsi!
Nono
giorno. Non so cosa mi abbiano sparato in vena ma sto bene. Mi sento
rinata. Ultima visita prima di venire dimessa.
Il
dottore deve avere un amore segreto (neanche troppo) per i numeri, i
calcoli e le statistiche ma io, dopo la prima proposizione di senso
compiuto, già l'ho perso. Sono laureata in filosofia, gente!, ho
sempre odiato la matematica, vengo da una settimana da incubo e parlo
solo in presenza di una calcolatrice. Ma, buon uomo, ha una faccia
così simpatica che sembra brutto non ascoltarlo (o almeno simulare
di farlo): «Le coliche renali colpiscono circa un milione e mezzo di
persone ogni anno e rappresentano il 2% delle cause di ricovero (mi
sembra di stare a seguire “Medicina 33” e a ben vedere il dottore
ha qualche vaga somiglianza con Luciano Onder... aiutatemi!).
Colpiscono senza preavviso (e lo dice a me? Io che ero in tutte altre
faccende affaccendata quella sera, presa dai preparativi per Parigi).
In genere i calcoli che le causano colpiscono più gli uomini delle
donne (uh, che fortuna – penso – proprio l'eccezione che conferma
la regola dovevo essere?) e solitamente si ha un picco intorno ai 35
/ 40 anni... strano, lei è così giovane (eh non facciamo lo
splendido, dottore! Io agli “anta” ci arrivo a fine anno... ma
l'ha letta la mia cartella clinica?). Comunque tutto è bene ciò che
finisce bene, cara la mia Antonietta».
No,
non l'ha letta. Adesso ne ho la conferma. Mi chiamo Elisabetta,
E-L-I-S-A-B-E-T-T-A, come la Regina d'Inghilterra o come la Canalis,
se preferisce. Non è difficile!
Ma
il meglio lo riserva per il gran finale: «Eh signora, lo sa che una
colica renale è forse uno degli eventi più dolorosi che possa
capitare (nooo – penso io – davvero?). In confronto un decorso
post operatorio, una ferita da arma da fuoco, un'ustione, un parto
sono bazzecole!»
Bé...
mi ha quasi convinta! Tutto sommato riconsidero l'eventualità di
avere un pupo (ma forse è un po' prematuro rendere partecipe Etienne
di questo mio progetto!).
Vado
a salutare Agnese.
Lo
confesso: mi dispiace lasciarla!
Il
fatto è che ci sono svariati modi per vivere la propria professione.
Agnese si è davvero presa cura di me, facendo anche di più di
quello che le veniva richiesto, donandomi disinteressatamente ogni
secondo libero del suo turno, riuscendo sempre a intercettare ogni
attimo di sconforto o dolore. Bastava una sua battuta, sorriso o
carezza per tornare a vedere il bicchiere mezzo pieno e questa è la
grande differenza tra chi si limita a svolgere una professione per
dovere e per portare a casa la pagnotta e chi invece, oltre a
quest'ultima motivazione, lo fa anche per passione, perché ci crede
davvero.
Grazie
a lei quella che si prospettava come una permanenza forzata a
Guantanamo si è rivelata quasi una vacanza al Club Med.
Bè,
io vado.
Ah,
Agnese... ancora una cosa: quando mi fai una teglia di sagne
chine?
The
end!
PiEsse:
E voi? Vi sarà sicuramente capitato di aver ricevuto uno di quegli
schiaffoni costruttivi (metaforicamente parlando), di aver dovuto
affrontare episodi dolorosi che vi hanno posto davanti ad un bivio,
costringendovi a modificare la vostra vita. E oggi, magari, vi
ritrovate a pensare che, tutto sommato, siano stati un bene.