giovedì 4 dicembre 2014

THE PRINCE CHARMING IS DEAD


Come ogni anno, arriva dicembre e in televisione, su Internet, nei giornali è tutto un fiorire di suggerimenti in vista del Natale: il regalo perfetto, il menù perfetto, l'abbigliamento perfetto, il decoro perfetto...
Tralasciando il fatto che di carattere sono sempre stata un bastian contrario, in me tutti questi saputelli in cerca della sedicente perfezione che dispensano consigli suscitano lo stesso interesse di una televendita di penne magiche... vi ricordate quelle che avrebbero dovuto servire per eliminare i graffi sulla carrozzeria dell'auto?
Tutta questa amena premessa per avvisarvi che se oggi state per leggere un post sull'ammore, potrebbe essere che il 14 febbraio disquisiremo di abeti e presepe.
Conoscendo la mia propensione per gli argomenti da Commedia Umana, la mia amica Margie qualche giorno fa mi ha inviato un articolo apparso su un settimanale newyorkese dal titolo “The prince charming is dead”.
 

Tutto subito mi sono chiesta: ma siamo poi così sicuri che sia passato a miglior vita? Non è che magari il Principe Azzurro è solo in terapia intensiva?
Poi però, dopo aver letto la ricerca della psicologa a stelle e strisce, mi sono domandata: ma non è che, se 'sto disgraziato è morto, alla fine della fiera la colpa è anche un po' nostra?
Nell'articolo si sostiene infatti che noi donne siamo assolutamente convinte di riuscire a trasformare un ranocchio in principe – che, fuor di metafora, vorrebbe dire redimere un uomo problematico rendendolo un compagno felice – perché la nostra cultura sentimentale è stata inquinata da modelli sbagliati che ci spingono a cercare senza sosta l'happy ending delle favole.
Al che, mi sono venute alla mente tre letture davvero illuminanti in questo senso.
Durante una mia recente degenza ospedaliera, un'anima pia, sapendo del mio odio per i fiori (che per altro avevano già saturato la stanza), ha fatto cosa buona e giusta venendomi a trovare con in dono tre libri: “Vogliamo la favola”, “Sdraiami” e “La ballata delle prugne secche”.
Simona Siri, Berarda Del Vecchio e Pulsatilla hanno fotografato così bene quello che è stato anche il mio passato sentimentale che non saprei usare parole migliori delle loro per sintetizzare il mio pensiero in materia.
«È colpa di tutte le coppie da sogno che hanno popolato la nostra immaginazione fin dalla tenera età, non importa se reali o inventate, se cinematografiche o letterarie, se in carne e ossa o fatte a cartone animato – sostiene Siri – se la nostra vita sentimentale si è nutrita di aspettative troppo alte».
D'altronde nell'Era Preistorica dell'Arte Amorosa tutto era più semplice: anche un semplice contatto fisico era sufficiente a farti venire la pelle d'oca e il fiato corto. Poi però – spiega Del Vecchio – le cose progressivamente si aggrovigliano e nell'età adulta si arriva a collezionare una serie di fregature, mezze storie, fidanzamenti improbabili, insomma relazioni con personaggi che «neppure Darwin, buonanima, li avrebbe voluti nella sua tenace ricerca dell'anello mancante fra l'Uomo e le scimmie bonobo»: dall'Uomo-verme a quello che ti fa vivere sotto un treno di cazzate e rimpianti, dal super-paraculo col botto al maschio che riesci a reggere solo se hai «un fisico da fondista, una mente da stratega, una presenza di spirito da comico e un pelo sullo stomaco da bestia» passando per quello che «ha quarant'anni, ne dimostra cinque di meno fisicamente, venti di meno psicologicamente, quaranta di più mentalmente. Con lui non sai mai se stai parlando con il Saggio della Montagna o con l'Adolescente Coglione, ma certo non riesci mai a parlargli di te».
E tutto questo perché «noi donne siamo geneticamente programmate per accettare ogni tipo di bugia e cazzata da uno che ci piace. Anzi, pare che nella mappatura del genoma della femmina dell'Homo Sapiens, il cromosoma accètta-fregnacce [...] sia uno dei più antichi insieme a quello perdona-stronzi e a quello ama-e-soffri».
Dello stesso avviso, anche Pulsatilla: se ci si para davanti non un pallista normale, ma addirittura un campione mondiale di pallismo, che facciamo noi? «Trotterelliamo ingenuamente verso di lui come Cappuccetto Rosso nelle fauci del lupo».
Morale: nove uomini su dieci si rivelano un disastro, una catastrofe ecologica... d'altronde un motivo deve pur esserci se «gli italiani sono un popolo a crescita zero in via di estinzione».

Poi però, quando meno te l'aspetti, quando pensi che rimarrai zitella fino alla fine dei tuoi giorni (a meno che tu non decida di optare per il Trono Over di Maria, dove sai che, mal che vada, ci sono sempre Giuliano e Antonio J. ad attenderti), arriva uno di quegli accadimenti inaspettati che ti cambia la vita. E allora, dopo aver attraversato una valle di lacrime fatta di uomini deludenti – come già ho avuto modo di confessare nel primissimo post di questo Bloganche io il mio Ciop, il mio Shiro, il mio Raimondo, insomma la mia metà della mela alla fine l'ho trovata.
E come si capisce che lui è proprio Lui?
Personalmente ho avuto non dico un vago sospetto, ma proprio la matematica certezza di avere di fronte la nemesi di tutti i miei precedenti naufragi sentimentali quando guardandolo ho sentito che quello scambio di battute tra Jade e David in “Amore senza fine”, che mi era sempre sembrato di una stucchevolezza nauseante, combaciava alla perfezione con quello che sentivo.
Già perché se alla domanda «Cosa faresti se io morissi?», vi viene da rispondere «Morirei anche io», allora col cavolo che il Principe Azzurro è morto, con buona pace delle ricerche della psicologa americana!

sabato 11 ottobre 2014

LA STRADA PER FRASCATI

Per motivi ignoti persino a me stessa, qualche giorno fa mi sono messa a leggere un mappazzone di dieci pagine contenente i risultati dell'ennesima ricerca condotta dalla Bbc nella quale, rielaborando le interviste a importanti manager, sono stati elencati i tre principali passi falsi che chi ambisce a fare carriera deve stare attento a non commettere.
Secondo James Caan, amministratore delegato del gruppo Hamilton Bradshaw, quando si fa un colloquio per un nuovo lavoro è molto importante evitare di tergiversare, o, peggio ancora, rispondere «Non so» mentre Bernard Marr, AD all’Advanced Performance Institute, sostiene sia fondamentale la stretta di mano e giudica negativamente quella poco convinta così come quella «bagnata» (che se per giunta è associata all'incapacità di reggere lo sguardo dell'interlocutore... addio! Meglio prendere direttamente la strada dell'uscita).
Scott Case invece, co-fondatore e amministratore delegato della Main Street Genome, ritiene che cruciale sia la risposta alla domanda «Perché finora non hai fatto carriera?». Azzardare un'uscita tipo «Non mi è ancora capitata l'occasione giusta» equivale a tirarsi sui piedi la più memorabile zappata che la storia ricordi. «Dietro a una simile giustificazione si cela un atteggiamento indolente. Le occasioni non bussano alla porta: bisogna andarsele a cercare» sentenzia Case.
Bene. Adesso si vive tutti più felici e contenti, come se non ci arrivasse anche chi manager non è, a capire che una mano sudaticcia o risposte poco decise sono indice di temperamenti tutt'altro che volitivi.
Non saprei... a farmi sciroppare questa ricerca potrebbe essere stata la particolare congiuntura esistenziale che sto vivendo, caratterizzata da radicali cambiamenti professionali. Forse è normale, quando metti un punto fermo a un capitolo, giri pagina e ne inizia un altro, fare due righe di conti.
Fatto sta che a guardare indietro, mi è venuto il dente avvelenato.
È andata più o meno così.
Dopo la fase “serva della gleba” (che vi ho già illustrato tempo addietro nel post “Anche i servi della gleba prima o poi si incazzano”, nel quale – per chi non avesse nessuna voglia di andarselo a rileggere – vi deliziavo raccontandovi del gaio sodalizio lavorativo con un'amabile personaggiA, soprannominata Miss Piccione, che, bontà sua, per ics anni mi ha trattata come il suo monumento... e con questa metafora tratta dalla celebre canzone di Elio, ho detto tutto), da Lassù il buon Dio deve aver buttato un occhio al mio bilancio e avendo notato che qualche conto non tornava, ha prontamente provveduto al conguaglio.
Si inaugura così l'Era delle Vacche Grasse ed assisto con stupore ad un fiorire di proposte di lavoro che è una poesia, manco a politici, amministratori della res publica, Fondazioni ed Enti culturali vari, ecc. ecc... fosse presa una specie di incontenibile dissenteria culturale che li costringeva a commissionarmi libri a tutto andare.
A un certo punto però le pile iniziano a scaricarsi, passano giorni-settimane-mesi-e-pure-anni e i soldi sul tuo conto non arrivano. E se mai mi fosse venuto da pensare di aver toccato il fondo e di poter oramai solo risalire, ecco arrivarmi a sorpresa l'ascensore per un'ulteriore discesa. Già perché vengo a scoprire che i soldi non ci sono nemmeno per la stampa e quindi prendo atto di essere cornuta e mazziata: proliferano i lavori non pagati e addirittura non pubblicati. Proliferano al punto che li conto oramai sulle dita di due mani.
Certo, perché i signori (!) committenti – tutta gente che si spaccia per seria e a modo, neh, che va in giro facendosi un vanto della propria onorabilità e cristallina coerenza ed altre supercazzole del genere – si sono misteriosamente accorti che i soldi erano evaporati quando io il lavoro l'avevo già finito (alle volte, la sfiga!), dopo che io avevo cucinato loro anche una fettina di glutei coi pinoli... così, giusto per puntualizzare il tempismo. Ma chi ve li ha fatti i calcoli quando avete stanziato i soldi? Vostro nipote treenne mentre sul seggiolone giocava con la calcolatrice?
Allora cosa faccio? In ordine sparso: mi sforzo di mantenere la calma, discuto, vado per vie legali, perdo la calma, cerco un compromesso, prendo atto dell'imbarazzante blackout delle capacità intellettive dei miei interlocutori, fino a quando... un bel giorno, DLINDLON, suonano alla porta. Ed ecco che arriva la tua Occasione, quella con la “o” maiuscola. Già perché sa, signor Case, a me, che mi si può dir tutto tranne che sia indolente, è andata più o meno così, forse sempre per via di quella storia del conguaglio ai piani alti...
Ok, ciò comporterà cambiamenti, sacrifici, scelte difficili ma è LEI, la tua Occasione e quindi corri il rischio, parti e dentro di te ti abbandoni a un'esultanza incontrollabile stile rigore di Grosso a Berlino.
D'altronde Nemo propheta in patria, già si sa.


Perché qui alla fine cambiano le facce, cambiano i culi a scaldare le sedie ma la minestra è sempre la stessa e – nel mio lavoro ma mi sembra un po' in generale – è tutto un blandirti, è tutto un fare grandi promesse ma poi quando vanno mantenute la frase più cortese, quando si degnano di risponderti, è «Oh scusa, adesso sono proprio impegnato... ti faccio sapere... ti richiamo dopo».
Ecco, il fatto che da quel “dopo” ad oggi siano passati mesi, se non anni dovrebbe farti capire l'urgenza di cambiare aria.
Tutta questa favoletta esopica ha infatti la sua morale: quando ti trovi a lavorare con dei peracottari (chiamiamo le persone col loro nome) del genere e tu senti di avere le potenzialità per volare in alto, quelle zavorre le devi mollare.
E per finire, mi rivolgo direttamente a voi, signori cari (laddove sia il sostantivo che l'aggettivo è detto con ironia), e vi sintetizzo ciò che penso dalle pagine del mio Blog poiché non avrò occasione di farlo di persona (non per mancanza di palle ma di tempo dato che me ne avete fatto perdere fin troppo): quando verrà il giorno in cui mi cercherete – perché verrà, ne sono certa – e tenterete di farmi su come una magnolia, ecco, non affaticate inutilmente il criceto che vi fa girare la ruota delle vostre sinapsi neuronali, lasciate perdere e seguite direttamente le indicazioni che l'ispettore Giraldi dà a Bombolo per andare a Frascati (di cui nel video qui sopra).
Tante belle cose!

lunedì 1 settembre 2014

SULLA BELLEZZA


Non che ignorare la genesi del post sia una cosa che vi tolga il sonno, ma l'episodio cui ho assistito stamattina è divertente e di già che ci sono vi racconto come è nata questa divagazione.
Ai giardinetti. Cielo terso, neanche una nuvola (notazione non da poco dato che sono tipo due mesi che non c'è una giornata del genere).
Una mamma cerca di convincere il figlioletto a giocare al sole, mitragliandolo a raffica con motivazioni di discutibile efficacia persuasiva.
«Tommy, non stare sotto l'albero... vieni qui (e intanto ravana nella borsa alla ricerca di un flaconcino di crema solare
In risposta: un grugnito di disappunto.
«Tommy, spostati al sole ti ho detto.... non lo sai che fa venire il buon umore?»
Risposta: come sopra.
«Dai Tommy: il sole ti rafforza le ossa e ti fa crescere grande grande... muoviti»
Tommy simula un avvicinamento ma poi si accomoda ancora più lontano dal cono di luce che investe la figura materna e con un plateale segno di noncuranza le volta le spalle.
Tentando il tutto per tutto, la mamma se ne esce con un accorato: «Eddai Tommy, il sole bacia i belli!»
«Ma cosa dici, mamma? – replica il nanetto con tono risentito – Il sole bacia i brutti perché i belli li bacian tutti»
Questo il pensiero estetico di Tommy, quattro anni malcontati.
Nell'assistere a questa scenetta mi è venuto in mente un articolo che ho letto di recente sulla figlia degli attori Bruce Willis e Demi Moore, Tallulah.
La ragazza, vent'anni, ha sofferto di una patologia chiamata dismorfofobia cioè è cresciuta vedendosi un mostro, sindrome che ai giorni nostri colpisce una percentuale in sensibile aumento di adolescenti.
Un'ora dopo al supermercato mi supera con malcelato scazzo (presumo a causa del parcheggio in doppia fila del mio carrello) una tipa sui trent'anni, diversamente alta, sopracciglia alla Peo Pericoli, sulla fronte uno showroom di brufoli, che con un caschetto rosso arancio stile Vanna Marchi in testa e in una mise da velina (ma della velina aveva giusto gli shorts e il top dacché Madre Natura non l'aveva dotata di un fisico ineccepibile, laddove per “fisico stile velina” una intenda gambe toniche, zero cellulite, caviglie strette, ventre piatto, tette q.b., culetto scultoreo e via dicendo), distribuiva a destra e a manca sorrisetti ammiccanti con una strafottenza caritatevole. Immaginate una via di mezzo tra papa Francesco che saluta i fedeli con un cenno della mano e un vincitore a caso del Grande Fratello quando esce dalla casa.
Ecco, immaginate questa via di mezzo nella versione trash.
Una esegesi dei due episodi mi ha tenuta occupata per tutto il viaggio di ritorno a casa.

Quindi, ricapitolando si può dire che al di sotto delle due macro distinzioni fra gli oggettivamente BELLI e gli oggettivamente BRUTTI esistono:
quelli che si sentono di una bruttezza pirotecnica ma che in realtà rasentano la perfezione
quelli che si credono dei fighi imperiali ma che invece sono dei cessi che non si possono guardare
i belli ma brutti, cioè quelli che – aspetto estetico a parte – non hanno altro da offrire in quanto dotati di un cervello di pongo contro il quale i concetti rimbalzano allegramente (carenza che a ben guardare li fa sembrare meno belli)
i brutti ma belli, ovvero quelli che compensano deficienze estetiche con massicce dosi di fascino e carisma (qualità che a ben guardare li fa sembrare meno brutti)
Ora, grazie a questa grossolana classificazione antropologica i miei sconosciuti vicini di ombrellone sapranno uscire dall'impasse nella quale sono rimasti impaludati per ore (segue riassunto della disquisizione)

 Lei (sfogliando una rivista stile “Novella 2000”): Hai visto quella siliconata della Silvstedt con chi sta? (e gli porge il giornale)
Il marito: Ma è er fidanzato o ha vestito er cane?
Lei: Ma stai guardando la foto che ti ho fatto vedere?
Lui: Eccerto... Anvedi che nano!
Lei: L'altezza mica conta. Prendi Albano e Romina... sono stati insieme una vita!
Lui: A coso qui se so' scordati de copiarlo 'n bella!
Lei: Ha parlato Alain Delon...
Lui: Nun so' Delon ma questo è tarmente brutto che lo devi guarda' co'r decoder!
Lei: Come sei superficiale!
Lui: Ah Simo', maddai... nun se po' guarda'! Se lo vede Gigghe Robot je tira appresso i componenti!
Lei: Avrà altre doti...
Lui: Po' esse
Lei: ???
Lui: Che sia ben dotato in basso!
Lei: Pensate sempre a quello, voi uomini! Volevo dire che avrà qualcosa che non si vede al primo impatto...
Lui: Li sordi!
Lei: Come sei materiale! L'amore è cieco.
Lui: La biondona de securo...
Ora d'inizio della querelle: ore 16.00
Due ore dopo stavano ancora elencando disparate e bizzarre opzioni (im)possibili.
E dire che per una settimana il loro scambio di opinioni non andava più in là del «'Namo? Stamo?».
Sfrucugliare tra i fatti sentimentali altrui è proprio legna per il fuoco della conversazione. D'altronde già Mario Soldati ne aveva colto l'aspetto misericordioso: “C'è il pettegolezzo, di cui si dice tanto male ma che in fondo è la base della carità, dell'interesse per il prossimo”.

lunedì 21 luglio 2014

LA PORTA NON SI VALIGIA


Premessa: io sono una cultrice della valigia.
Cioè io sto a tutte quelle articolate (e – per il 99% del genere umano – pallose) operazioni pre partenza come le carote ai conigli o la bottarga agli spaghetti. E mi diverto pure.


Va da sé che appena mi è giunta notizia che il sito francese Minutebuzz consigliava una serie di soluzioni salva-spazio, abbia subito letto curiosa la lista delle astuzie da seguire per preparare la valigia perfetta e per giunta in poco tempo.
Consiglio numero 1: per evitare di stare a sbrogliare matasse di cavi, avvolgerli intorno a una pinza (tipo quelle che si trovano nel reparto cancelleria, per tenere insieme i fogli).
OK

Consiglio numero 2: per non perdere forcine o spille da balia usare il contenitore dei Tic Tac.
Ma chi usa ancora quelle tristissime, anonime forcine per i capelli?
Inoltre: e se non mangio i Tic Tac?

Consiglio numero 3: dove mettere i cosmetici? Prendere delle cannucce, riempirle con ombretti e fard e richiuderle con il nastro adesivo.
Usare un beauty case sembra una brutta idea?
Ma non si era detto che queste dritte garantivano di preparare tutto velocemente?
Il meglio però deve ancora venire, come direbbe il Liga.

Consiglio numero 4: per risparmiare spazio, infilare nei colletti delle camicie una cintura attorcigliata e i calzini all'interno delle scarpe mentre per quanto riguarda i vestiti, gli amici d'Oltralpe consigliano – udite, udite! – di arrotolarli.

ARROTOLARLI????

Come non pensarci prima!
Anni e anni spesi a studiare gli incastri ottimali per evitare che i capi escano dalla valigia come se fossero già stati indossati per una settimana e poi leggi degli pseudo consigli che ti suggeriscono addirittura di farli su alla “ugly Eve”?
Comunque sia, fatela come volete, partite con dieci giorni di anticipo come faccio io oppure preparatela la sera prima, l'importante è che la valigia sia sinonimo di vacanza, breve, lunga, lontano, vicino... perché c'è proprio bisogno di staccare la spina.
La gente arriva a luglio che non ce la fa più.
Svalvola.
È capace di fissare per ore, con pupille dilatate e occhi a molla un salvaschermo raffigurante un'immagine felice in riva al mare dell'estate precedente.
Si sente inchiodata nelle sabbie mobili del girone dei depressi se non lascia la città e se ne sta per qualche giorno in un altro contesto.
Dà evidenti segni di smottamento psico-cerebrale.
Addirittura blatera, farnetica, sproloquia.
E, se mai ne avessi avuto bisogno, ne ho avuto un'eloquente conferma poco fa.
Suona il telefono.
«Ti disturbo?»
«Se non ti spiace ti richiamo dopo... sto finendo di scrivere un post»
«Ma dai? Su cosa 'sto giro?»
«Sull'arte di fare i bagagli»
«Eh???»
«Su come essere super efficienti nel preparare borsoni, trolley, valigie»
«Ah... le valigie... Lo sai che differenza passa tra una valigia ed una porta?», mi domanda il mio interlocutore che – postilla indispensabile per capire la portata dell'aneddoto – ha molte doti, ma di certo non spicca per vis comica.
«....»
«Che la valigia si porta, ma che la porta non si valigia!»
BUONE VACANZE!


venerdì 27 giugno 2014

MUUUH!!!


Guardate che la mente umana è ben strana!
Presumo che lei mi stia chiedendo di che taglia e/o colore mi servano i leggings che sto cercando, eppure io riesco solo a osservare quel particolare. Quel fastidioso, sgradevole particolare.
La commessa, una donna sulla cinquantina dalla faccia slavata e con una voce stridula alla Vanna Marchi, ha la rara capacità di articolare suoni di senso compiuto senza smettere di masticare, rumorosamente e con la bocca ben spalancata, un povero, innocuo cicles.
Incurante degli sguardi omicidi che le saetto, lei rumina, rumina, rumina e di tanto in tanto ha pure l'ardire di far scoppiare delle microbolle (roba che io nemmeno a otto anni... altrimenti mother Angel, a forza di schiaffoni, mi faceva girare la testa stile Minipimer funzione turbo, perché «Non è educazione, Elisabetta!») che, se possibile, producono un suono ancor più fastidioso della sua ritmica masticazione.
Il pensiero, certe volte, è proprio come un bambino piccolo che si aggira in cucina nelle vicinanze del secondo cassetto dall'alto (luogo dove, nove su dieci, le famiglie tengono le posate). Più gli ripeti «Gioia, non aprirlo... è pericoloso, ci sono i coltelli, ti puoi far male» e più lui, gira e rigira, sempre lì ritorna, ti guarda incurante dell'ammonimento e lo apre.
Ecco: stessa cosa con la commessa.

Più mi sforzavo di concentrarmi sull'acquisto, più riuscivo a vedere davanti a me solo la mucca del cioccolato Milka intenta a sbocconcellare fieno.
Nella speranza di riuscire a distogliere l'attenzione dalla causa di tanta seccatura, mi chiedo: E io? Chissà se pure io ho tic, più o meno involontari, tritanervi per il prossimo come l'ipercinetica mandibola della signora?
Al che mi torna in mente la classifica, stilata dal sito Dailybest, delle 32 cose che facciamo in continuazione senza mai accorgercene.
Tipo?
Tornare immediatamente indietro per rileggere una email pochi secondi dopo averla spedita (ed immancabilmente notare qualche errore grossolano e/o di aver dimenticato di scrivere qualcosa).
Mentre si legge un libro o il quotidiano, iniziare a pensare ai fatti propri ma rendersi conto solo tre pagine dopo di aver perso il filo.
Iniziare a camminare, nel corso di una lunga telefonata, avanti e indietro.
Far partire la musica in riproduzione casuale, per poi saltare ogni canzone fino a quando non si trova proprio quella che, in fondo in fondo, si voleva ascoltare sin dall'inizio.
Sorridere al cane che si incontra per strada, ignorando completamente il suo padrone (se però a tenerlo al guinzaglio c'è Tom Ford – lo so... lo so che è gay... per me rimane comunque fighissimo a prescindere dai suoi gusti sessuali – il mio occhio è legittimato a salire).


Dal sito justdog.it

Quando si è da mezz'ora in un negozio e si realizza che non c'è niente di interessante da acquistare, si inizia a diventare paranoici e ci si convince che la security ci tenga d'occhio credendoci degli abili taccheggiatori stile Winona Ryder.
Innervosirsi quando il parrucchiere cerca a tutti i costi di intavolare una conversazione con noi (a meno che non sia un degno epigono di Zohan).


Adam Sandler nelle vesti del parrucchiere Zohan / Scrappy Coco

Dimenticarsi immediatamente il nome della persona che si è appena presentata.
Impostare l'orario della sveglia prima di quanto necessario, in modo da poterla ritardare almeno due o tre volte (svegliando il coniuge che ti dorme al fianco... vero Rose?).
Durante uno spostamento in auto iniziare a considerare le altre macchine come compagni di viaggio e venire assaliti da un senso di tristezza quando si deve pagare il pedaggio e uscire dall'autostrada.
Celo, celo, celo.... A rientrare nella lista dei “manca” solo gli ultimi tre punti.
Ora, con tutta la buona volontà: vogliamo mettere una delle voci dell'elenco di cui sopra a confronto col disturbo compulsivo della commessa?
Senza calcolare poi che il rischio di trasformarsi in Ruttolomeo del film “Balle Spaziali” è dietro l'angolo...


Quindi, tirando le fila del discorso, in un afflato di generosità, mi rivolgo direttamente a te “MucCommessa”: se non riesci a masticare con la bocca chiusa per ottemperare alle norme della buona educazione di monsignor Della Casa, buonanima, e se non lo vuoi fare per la mia sanità mentale circoscritta ai dieci minuti di permanenza nel tuo negozio, fallo almeno per le inappuntabili ragioni che spiega la dottoressa Graziani, ricercatrice all'Istituto di scienze dell'alimentazione del Consiglio nazionale delle ricerche ad Avellino: «Quando si mastica o si parla con la bocca aperta si ingerisce aria, con inevitabili effetti poco decorosi come eruttazioni e singhiozzi».
Hai capito, cara la mia Barney  Gumble  del commercio locale?

giovedì 29 maggio 2014

PROVE D'AMORE. PROVE IN AMORE



C'è una canzone degli U2 che dice
«When I was all messed up,
[...] your love was a light bulb,
hanging over my bed».
Questo post è per te, Rose,
che da nove anni illumini la mia strada.
Grazie
per aver reso la mia vita migliore!


L'altro giorno dal parrucchiere, sfogliando distrattamente un giornale altamente culturale (!), mi sono imbattuta in un articolo nel quale – prendendo spunto da una dichiarazione di Cristiana Capotondi – si dissertava di prove d'amore.
L'attrice trentatreenne raccontava di aver rinunciato per un anno al sesso su richiesta del fidanzato Andrea Pezzi, precisando che proprio grazie alla forzata castità ha imparato a vivere meglio il rapporto di coppia.
Nei restanti 35 capoversi dell'articolo sessuologi, psicologi, sociologi e svariati altri “-ologi” competenti (o pseudo tali) in materia si sono scervellati nel tentativo di dare una spiegazione al fenomeno, che a quanto pare è in crescita, arrivando a questa conclusione: secondo gli ultimi dati Istat, in Italia ci sono circa 86.000 matrimoni l'anno, numero in sensibile calo a differenza di quanto capita per i divorzi, che crescono esponenzialmente, arrivando a superare quota 55.000. E nella stragrande maggioranza dei casi, qual'è il motivo della rottura? L'impossibilità di accontentare le aspettative del partner. L'incapacità di chiamarsi fuori in tempo utile da una dinamica malata, fatta di obblighi e ricatti, che ha il suo punto di partenza proprio nella “prova d'amore estrema”.
Tralasciando il fatto che già solo l'imposizione di qualcosa o la richiesta di una “prova” mi sembra alquanto antitetico con il concetto di “amore” (e non c'è bisogno di essere Freud per arrivarci) e che se proprio vogliamo utilizzare i due termini insieme bisogna saperli inserire in frasi di sublime poeticità come lo sono i versi di Vivian Lamarque – “Con un filo d'oro la vorrei legare a me. Poi, come prova d'amore, la vorrei per sempre liberare” – ciò che mi lascia alquanto stranita è il tono allarmistico usato da un team di ricercatori della Clemson University secondo cui il partner (nove su dieci di sesso femminile), fatto su come una magnolia alla richiesta “Se mi ami, fallo” (astenersi perditempo che ironizzino sull'imperativo testé usato!), entra in una spirale di manipolazione e sudditanza.
Nenooo nenooo nenooo (suono onomatopeico di sirene)!!!
Porca misera – mi son detta – qui la cosa si fa seria!

 
Al che ne ho voluto sapere qualcosa in più di questo sedicente pestilenziale flagello delle relazioni amorose nel ventunesimo secolo.
Così, snapando qua e là, ho scoperto che la Capotondi è in buona compagnia.
Anzi, a ben vedere c'è pure chi sta messa peggio.
Eva Clesis, ad esempio, fino a qualche tempo fa se le girava di mettersi una collana o un orecchino, doveva portare solo i gioielli appartenuti alla moglie defunta del suo compagno, Nancy Fetherstone e il marito Donald da più di trent'anni indossano gli stessi vestiti («In un'epoca di completa assenza di valori e in cui impera l'individualismo, come questa che stiamo vivendo – sostengono gli interessati – sfoggiare tutti i santi giorni magliette e calzoni dello stesso colore è un modo per mostrare a tutti il nostro amore»... ah be', contenti loro!) mentre Martina Emisfero per un ex ha rivoluzionato la sua dieta diventando vegana e Carlotta Chiari si immerge tra i pescecani per amore di Filippo, appassionato subacqueo.
«Tütt cine!» avrebbe icasticamente commentato la mia saggia nonna Wanda.
Posto che ognuno è libero di pensarla e comportarsi come meglio crede, a me – che sono cresciuta circondata da esempi di rapporti coniugali molto sobri, pragmatici ed estremamente solidi – leggere di questi eccessi, viene davvero da ridere.
Mi sembrano solo delle gran cazzabubbolate.
Già... perché se proprio vogliamo usare i termini “prova” e “amore” nella stessa frase, è molto più corretto parlare di “prove IN amore” piuttosto che “DI amore” e qui la faccenda è un bel po' diversa. Perché in una storia vera si è chiamati quotidianamente a superarne dando ogni santo giorno dei piccoli, grandi saggi del sentimento che diciamo di provare, ora sopportando le lune o un momento di malumore del partner, ora supportandone le debolezze, ora tollerando un suo difetto, ora morsicandosi la lingua per evitare di mandarlo/la a cagare... e potrei andare avanti per venti post a elencare una dettagliata casistica.
Magari sono esempi meno estremi, meno pericolosi, meno plateali ma dal mio punto di vista più faticosi e significativi (che poi, a ben vedere, quelle stesse cose – che fatte per chiunque altro costerebbero sforzi immensi – fatte per Lui / Lei non dico che sembrano una passeggiata ma comunque non pesano come macigni!).
Morale della favola, vestitevi e mangiate come vi pare, praticate o meno l'astinenza da ciò che volete, fatevi tatuare il nome dell'amato come Melissa Satta per il suo Kevin Prince o regalategli un'isola a forma di cuore come Angelina a Brad oppure – sempre per restare in tema di scelte misurate – affittate l'intera Disneyland solo per portarlo a un party privato nel castello della Bella Addormentata su una zucca trainata da cavalli banchi come Mariah Carey e Nick Cannon, insomma chiedete o date le prove d'amore che vi pare se questo vi fa vivere con più serenità un rapporto ma ogni tanto fermatevi a ripercorrere mentalmente la vostra relazione e se dopo cinque, venti, cinquanta o-quanti-sono anni sareste disposti senza remore a ricominciare tutto daccapo, nella buona e nella cattiva sorte, è questa la garanzia che andavate cercando!

sabato 5 aprile 2014

ANORESSIE SENTIMENTALI, ANDROFOBIE E CONSAPEVOLI DISTACCHI


Gli strani casi che ti riserva la vita: proprio mentre alla radio stanno dando la notizia che Gwyneth Paltrow e Chris Martin, dopo undici anni di matrimonio, hanno optato, “con il cuore pieno di tristezza”, per un “consapevole distacco” (in altre parole, di separarsi), al tavolino del bar dove ci stiamo bevendo un caffè, la mia amica Veronica, con due fontane negli occhi e le mani piene di kleenex, mi comunica che Andrea se ne è andato di casa.
«Ci lasciamo ma con amore» hanno precisato la star premio Oscar e il leader dei Coldplay, così come, prima di loro, avevano fatto anche Monica Bellucci e Vincent Cassel.
«È stato davvero difficile preparargli le valigie e vederlo lasciare le chiavi sul tavolo... siamo ancora innamorati ma anche consapevoli che insieme non saremmo felici» continua a ripetermi la mia amica.
E chi se ne frega? Chiederete voi.
Frega, frega.
Non i fatti personali di coppie più o meno famose ma il motivo che pare stare dietro alla rottura di matrimoni che sembravano collaudati. Prendete Susan Sarandon e Tim Robbins, che si sono lasciati dopo 23 anni di vita insieme, o Clint Eastwood e la seconda moglie Dina, dopo 17. Possibile che dopo tutto quel tempo insieme un rapporto possa vacillare come un dente da latte?
 
Ok, quello perfetto non esiste.
Si sa: per far funzionare una relazione bisogna farsi un paiolo tanto. È opportuno smussare qualche spigolo e imparare ora a sdrammatizzare, ora a tacere; vanno continuamente trovati equilibri e compromessi; bisogna dosare con cura miele e peperoncino e trovare un giusto bilanciamento tra “io”, “tu” e “noi”.
A parole, sembra facile ma nella vita di tutti i giorni mica è sempre tutto “sole, cuore e amore” come vorrebbe Valeria Rossi.
Un team di psicoterapeuti ed analisti si è messo a studiare questa ecatombe nelle relazioni di lunga durata arrivando a una conclusione davvero bizzarra: quando le farfalle smettono di fare le capriole nello stomaco e si scende dal lunapark degli ormoni, quando le emozioni e l'andamento da Brucomela che assume nel corso degli anni una storia iniziano a puzzare un po' di stantio ed a causare qualche sbadiglio, uomini e donne – ciascuno a modo loro – diventano insofferenti.
E cioè: la donna del ventunesimo secolo soffre di “androfobia”, una patologia che la porta a cogliere dell'uomo solo i suoi difetti, le sue disattenzioni e i suoi egoismi. L'uomo, dal canto suo, è affetto da “anoressia sentimentale” (o, se preferite usare il curioso neologismo coniato apposta per descrivere questo disturbo, da “amoressia”), cioè sviluppa la tendenza, che diviene col tempo abitudine, a non lasciarsi andare per evitare di soffrire.
«Non sono gli uomini ad essere inadeguati. Sono le donne a nutrire aspettative distorte e a mostrarsi ipercritiche nei loro confronti», sostengono gli psicologi americani Connell Cowan e Melvyn Kinder.
«Quando si inizia a percepire una sorta di distacco emotivo nel partner è perché ha iniziato a vedere nell'oggetto amato solo colpe e fonte di preoccupazioni. Parlarne non serve. Meglio riversare il proprio affetto sugli amici o sugli animali domestici» suggeriscono alcuni colleghi italiani.

 
Bah! A me tutte queste elucubrazioni lasciano alquanto perplessa.
Vi dirò: io non sono una psicologa e ne capirò poco di dinamiche interpersonali ma secondo me, se due si lasciano – dopo uno, dieci o cinquant'anni – è perché lui non è LUI e lei non è LEI e tutto sommato è giusto che entrambi continuino il proprio cammino andandone in cerca.
... perché mica solo a quella “gran culo di Cenerentola”, per dirla alla Vivian Ward (aka Julia Roberts, “Pretty Woman”), è andata bene in amore!